
di Michele Quirici
Quando mi chiedono quale potrebbe essere un simbolo, un animale, un fiore o altro che possa “riassumere” la nostra città, oltre naturalmente allo stemma comunale con l’antico ponte, io rispondo prontamente: l’araba fenice. Un uccello mitologico che così descrive Dante nel canto XXIV dell’Inferno: “che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce”. Un’insegna già adottata alla fine del XVIII secolo dall’Accademia dei Risorti o dei Ravvivati con il motto “dal cenere mio rinasco”. Pontedera nella sua storia è rinata tantissime volte dalle sue ceneri e il carattere di chi ha abitato questo luogo per nascita o per ventura si è forgiato a suon di drammi e ripartenze.
Nel medioevo le sue fortificazioni e il borgo, conteso dalle “potenze” toscane dell’epoca per la sua invidiabile posizione strategica, furono distrutte e ricostruite innumerevoli volte. Così come fu una rinascita, nel 1454, l’arrivo degli abitanti di Camporgiano in Garfagnana e di Albiano e Caprigliola in Lunigiana per ripopolare il nostro paese ormai quasi disabitato. Potremo continuare a lungo attraverso i secoli questo racconto e fornire decine di esempi di come Pontedera si sia sempre rialzata. Qualcuno dirà che questo risorgere sempre, è un carattere comune a tante città e questo è verissimo, ma qui gli episodi sono davvero tantissimi e ci saranno altre occasioni per approfondire questo tema. Uno degli avvenimenti più catastrofici che la città dovette affrontare, a distanza di appena due decenni dai terribili eventi bellici, fu quello che si verificò il 4 novembre 1966: l’alluvione. Dopo giorni di pioggia con i fiumi gonfi d’acqua, i pontederesi scrutavano la situazione dagli argini e il presagio di una sventura era tangibile. Tutti i toscani che si “affacciavano” sull’Arno e su molti altri fiumi erano col fiato sospeso, ma se i nostri concittadini temevano il loro maggior fiume, il loro babbo, fu l’Era, la loro mamma, a tradirli. Così racconta quella mattina il sindaco di allora Giacomo Maccheroni: “La mattina del 4 novembre, con l’autorità della città e un generale che doveva tenere il discorso ufficiale con me in piazza Cavour eravamo in chiesa per la Messa celebrativa, quando un vigile urbano mi venne ad avvertire che l’acqua dell’Era all’altezza della Maternità e alla confluenza dell’Arno, all’altezza dell’ex ristorante Baldini, era così alta che sfiorava il pericolo della tracimazione. Non solo, ma anche la forza della corrente era molto forte tanto che le pareti degli argini non erano sicure. Appena finita la messa concordai con le autorità e con il generale che doveva partecipare e intervenire con me alla cerimonia, che la manifestazione sarebbe stata sospesa. Andai direttamente verso il comune per recarmi proprio al muro dove c’era più pericolo. L’acqua del fiume era lontana una spanna dal bordo del parapetto e vidi che tra mattone e mattone già filtrava l’acqua. Tornai in Comune e con l’assessore Biasci decidemmo di mandare immediatamente una macchina per dire alla gente che eravamo in stato di pericolo e che nessuno uscisse di casa. Mentre eravamo in Comune ci avvertirono che fuori del ponte, all’altezza di una piccola cateratta davanti a piazza Trieste, l’acqua era tracimata. Io e l’assessore Marianelli accorremmo sul posto. L’acqua arrivava fino alla vita. Pensavamo che lì sarebbe stato il massimo punto di rottura degli argini e andammo subito di casa in casa, c’erano case piccole e vecchie, per avvertire gli abitanti: Venite via dalle case. Venite via!”. Era solo l’inizio.