REDAZIONE PISTOIA

Carcere: la vita dietro le sbarre . Non sempre una riabilitazione

Ecco le condizioni dei detenuti in Italia, la parola alla criminologa e psicologa Jessica Lorenzon. Dal sovraffollamento, alla convivenza, fino alla difficoltà successiva di reinserimento nella società.

"Il grado di civiltà di uno Stato si misura dal grado di civiltà delle sue prigioni" scriveva Voltaire. Partendo da questa frase e dallo studio dell’illuminismo, ci siamo domandati quale sia la condizione delle carceri In Italia. Per farlo abbiamo intervistato Jessica Lorenzon, psicologa, criminologa e referente dell’associazione "Antigone - per i diritti e le garanzie nel sistema penale". Lorenzon ci ha spiegato che il suo lavoro consiste nel porre interviste ai detenuti, in modo da osservare le condizioni in cui vivono per poi stilare dei rapporti, così da rendere sempre più trasparente l’istituzione del carcere. Quest’ultimo è una piccola società chiusa tra le mura, dove la vita è scandita da orari rigidi e varie attività. Anche se alcuni detenuti lavorano (come pasticceri, panettieri o falegnami), in generale il lavoro scarseggia in carcere: difficilmente il detenuto lavora più di un mese in un anno.

Ci sono ruoli come lo scopino (fa le pulizie), lo spesino (distribuisce la spesa) oppure il piantone, che aiuta i detenuti in difficoltà nello svolgimento delle mansioni quotidiane. In seguito, le abbiamo domandato se l’articolo 27 del Codice penale - le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato - viene sempre rispettato. La dottoressa ha risposto che è difficile rispettarlo poiché le carceri italiane sono in una situazione di ‘sofferenza cronica’. Il primo problema è il sovraffollamento: l’Italia dispone di circa 45.000 posti per i detenuti, ma attualmente questi ultimi sono intorno a 60.000. Spesso persone molto diverse tra loro, per abitudini o provenienza (nella Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia ci sono circa 62 nazionalità diverse), condividono la stessa cella, che ha un’ampiezza di pochi metri quadrati.

Il sovrannumero di detenuti rende scarse le risorse disponibili. Ci siamo confrontati poi su quale sia il ruolo dello Stato, una volta che il detenuto ha scontato la sua pena e torna ad essere un uomo libero. La dottoressa ha parlato del rischio di ‘disculturazione’ che avviene quando si perde la capacità di svolgere semplici azioni quotidiane.

L’intervista si è conclusa con una domanda della Lorenzon che ci ha fatto riflettere e che speriamo possa far riflettere anche voi lettori: se il carcere deve abituare il detenuto a vivere in maniera adeguata all’interno della società, come può raggiungere questo risultato allontanandolo dalla società stessa?