
Un'aula di tribunale (Foto d'archivio)
Pisa, 5 maggio 2018 - Un processo, durato più di trent’anni, è finito ieri in tribunale a Pisa quando il giudice Luca Salutini, all’esito della consulenza del perito, ha pronunciato il non luogo a procedere per incapacità irreversibile dell’imputato di partecipare al processo. Una pendenza con la giustizia che per lui, oggi 53enne, assistito dall’avvocato Alberto Chiocchini di Pisa, non è mai esistita: dopo il coma è stato costretto all’immobilità, unita all’incapacità assoluta ad esprimersi. In questi trent’anni non ha mai saputo che il suo amico era morto per lo stesso incidente che ha ridotto lui in queste condizioni: tetraplegia spastica con afasia.
Erano le 4 del mattino dell’8 agosto del 1986 quando l’auto con quattro ragazzi a bordo, tutti di Campi Bisenzio (Firenze), usciti da un locale della Versilia, a Lido di Camaiore, prende in pieno un palo della luce. Al volante l’imputato, allora 21enne. Sul sedile del passeggero Massimiliano Rossi, 22 anni, allora studente di medicina, finito in coma insieme al conducente. Dietro due sorelle di 18 e 20 anni. Sono però i due che erano seduti davanti a lottare tra la vita e la morte a causa del grave trauma cranico riportato nel tremendo impatto: Rossi non ce la fa, il suo cuore cessa di battere la notte di Ferragosto. L’amico che guidava la Golf, invece, resterà in coma per altri dieci drammatici mesi, tra disperazione e speranze dei familiari, per risvegliarsi con la condanna a una esistenza tra letto e sedia a rotelle.
Le indagini sull’incidente, che ad entrambi ha rubato la vita nel fiore degli anni, saranno rapide e porteranno ad una veloce imputazione per omicidio colposo per la morte del compagno di svago. Inizia una vicenda giudiziaria – per competenza a Pisa, luogo della morte all’ospedale Santa Chiara – che dovrà però fare sempre i conti con le condizioni di salute dell’imputato sottoposto a periodiche consulenze medico legali per verificare l’eventuale mutamento del quadro clinico a favore della processabilità. Le legge lo impone, anche se l’esistenza di quel ragazzo passa da quelli che erano anche per lui i magici anni ’80, all’epoca dei telefonini, ai giorni della realtà virtuale, senza che nulla cambi. Mai. Resta lì, sopravvissuto e prigioniero del suo stesso corpo.
Una tragedia nella tragedia di quell’agosto caldo e lontano, quando quattro ragazzi correvano nel cuore di una notte che era tutta loro. Lo schianto e la morte fermarono tutto per un tempo infinito. Ma non per la giustizia. Tra fissazioni di udienze e sospensioni, quel 21enne, diventato uomo, inconsapevole dell’accaduto, è stato con un processo pendente sulla sua esistenza già provata dal destino, fino a ieri. Quando il tribunale ha potuto dichiarare la sospensione del processo per incapacità irreversibile dell’imputato a partecipare coscientemente al giudizio, riforma arrivata nel giugno dello scorso anno e che era stata ripetutamente sollecitata dalla Corte costituzionale. Il «faldone» passa in archivio, chiudendo tra documenti assicurativi e passaggi penali, tutto il carico di dolore di questa storia. Iniziata scandendo la gioia di una sera magica che con le prime luci del nuovo giorno avrebbe dovuto riportare tutti a casa. Due di loro, invece, sono rimasti lì. Ombre di due diverse traiettorie di dolore.