Come l’opera integrò i nostri avi Gli emigrati portarono marmo e lirica

Maria Mattei racconta come i carraresi espatriati in Usa si fecero accettare grazie al Belcanto e alla cultura

Come l’opera integrò i nostri avi  Gli emigrati portarono marmo e lirica

Come l’opera integrò i nostri avi Gli emigrati portarono marmo e lirica

E’ stato il concerto degli Amici della lirica in Accademia e il fermento culturale che si sta vivendo dal basso in questo tempo in città che ha destato ricordi e spolverato studi di Maria Mattei, presidente della comissione Cultura del Comune, studiosa della storia anglosassone e dei rapporti del mondo dell’ovest con la nostra città. Così se il rilancio parte anche e soprattutto grazie all’input degli Amici della lirica, è stato proprio il belcanto uno strumento di integrazione e un lasciapassare per gli italiani immigrati in America. La lirica come mezzo per abbattere gli stereotipi, la cultura come strumento per demolire barriere e pregiudizi.

Mattei coglie così l’occasione del recente concerto di ’Marmo all’opera’ per parlare del legame indiscusso tra musica e pietra, di come l’opera abbia contribuito a definire l’identità delle comunità italo americane, comprese quelle fatte dai nostri maestri del marmo: scultori, cavatori, scalpellini e ornatisti che lasciarono le Apuane in cerca di libertà, di una vita migliore, di un sogno. "L’opera – scrive Mattei – è stata ed è ancora uno dei simboli dell’identità italiana all’estero, una forma d’arte che ha consentito agli italo americani, da New York a San Francisco fino alla nostra gemella Barre, in Vermont, di mantenere vivi i legami con la terra d’origine. Gli inizi non furono facili, i pregiudizi e gli stereotipi razzisti erano ben radicati. Come ricorda il musicologo Davide Ceriani, gli americani potevano provare simpatia per i cantanti, gli scenografi e i direttori provenienti dal Belpaese, ma non nascondevano il disprezzo per i manager italiani ai quali non potevano di certo affidare le loro opera house. Meglio i tedeschi, quelli sì che erano affidabili. Erano pregiudizi che anche gli scultori, si pensi ai nostri Piccirilli, dovettero combattere. Ma la lirica, come la scultura, divenne un mezzo per legittimarsi agli occhi degli americani. Le comunità organizzavano rappresentazioni, andavano all’opera per sostenere i direttori italiani e ascoltavano Enrico Caruso, emblema di cultura e simbolo di quel riconoscimento sociale al quale gli italiani emigrati aspiravano. Caruso, fraterno amico dei Piccirilli, andava spesso in visita allo studio di scultura più famoso d’America che risuonava della voce del Maestro durante indimenticabili serate, quando un piatto di spaghetti metteva insieme i presidenti degli Stati Uniti, uomini e donne di cultura e gli studenti più poveri della Scuola d’Arte, fondata da Attilio Piccirilli per educare alla bellezza i figli degli immigrati sbarcati a New York. E parlando di migranti, come non pensare alla città di Barre e alla sua Opera House che, costruita nel 1899, rispecchia l’amore per la lirica dei cavatori apuani? Mi piace pensare che le sue quattro compagnie eseguono quella stessa Bohème che incantò i carrarini il primo aprile del 1899, al Politeama Verdi, la stessa e che ha fatto innamorare, un secolo dopo, Cher e Nicholas Cage in “Stregata dalla Luna”. Nel film, che è una vera e propria dichiarazione d’amore per la cultura italo-americana newyorkese, i protagonisti sono due anime che si connettono grazie al capolavoro di Puccini, “una roba che arriva diritta al cuore senza passare dal cervello”, parola dello sceneggiatore e premio Oscar, John Patrick Shanley".