PAOLO CERAGIOLI
Cronaca

Nick Cave, la magia della musica. Un concerto intimo e potente fatto di grandi classici e parole

Per la terza volta a Lucca l’artista ha letteralmente incantato la platea di cinquemila persone con un concerto semplice e perfetto al tempo stesso. Con lui sul palco il bassista dei Radiohead.

Nick Cave al piano e Colin Greenwood, bassista dei Bad Seed e dei Radiohead (foto Alcide)

Nick Cave al piano e Colin Greenwood, bassista dei Bad Seed e dei Radiohead (foto Alcide)

Difficile pensare di essere in una piazza, in un teatro o in un’arena, quando davanti a te hai Nick Cave da solo con il pianoforte. Ieri sera e certamente in ognuna delle date di questo tour nelle più suggestive location italiane, era come sentirsi in un deserto o su una distesa di ghiaccio o sospesi nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Una platea di cinquemila persone che diventa di una sola, tu e solo tu, posto di fronte all’infinito, al profondo e talvolta sprofondo di parole e suoni che mettono a nudo la tua esistenza e quella del mondo intero.

Questa è la forza, immensa, devastante, di Nick Cave che, lasciati i panni dell’iconoclasta che usa la potenza del rock e delle parole dissacranti, attraverso un cammino personale e di vita complicato e anche tragico, usa semplicemente le parole e alcune metafore per esprimere l’inquietudine del suo animo ipersensibile e super complesso, ma anche quella del nostro, che quasi sempre tendiamo a soffocare.

Accompagnato dal solo bassista Colin Greenwood, bravissimo, con lui nei Bad Seeds ma anche con i Radiohead, Cave, nel suo solito completo elegante, si siede al piano e inizia con “Girl in amber“, brano tratto dal più scarno e sofferto album della sua discografia.

E poi “Higgs boson blues“ dove quella grande scoperta scientifica è solo il pretesto per parlare del tremendo mondo di oggi. Ma ogni titolo ha la sua storia, il suo perché, come la suggestione di “O children“, parte integrante del film “Harry Potter e i doni della morte“ o “Papa don’t leave you, Henry“.

Non c’è distacco tra artista e pubblico, anzi l’interazione è frequente e anche esplicativa. La scaletta invece è un crescendo inarrestabile, quando va dal grido di “The mercy seat“ a “Push the swy away“, con in mezzo le perle “The ship song“ e “Jubilee Street“ e la cover dell’amato Leonard Cohen, “Avalanche“.

E la conclusione con “Into my arms“ è qualcosa in più di una preghiera laica che lascia una speranza personale e forse collettiva, affidata all’amore e a un Dio che se proprio non può intervenire direttamente, in qualche modo veglia su tutti noi.

Ecco, questo è il sogno, pardon, lo spettacolo di Nick Cave, che ti tiene inchiodato alla sedia, letteralmente ipnotizzato, per oltre due ore e che ti fa perdere la cognizione del tempo. Questa era la terza volta di Nick al Summer e ogni volta, in formazioni e situazioni diverse, come per magia, questo puntualmente accade.

Se la musica sempre ci arricchisce, in questo caso, lo è stato ancora di più.