di Iacopo Nathan
"I ragazzi devono imparare a scrivere, con una buona sceneggiatura ci sarà sicuramente un buon film". Pupi Avati, uno dei grandi maestri del cinema d’autore italiano, ha illuminato la domenica del Lucca FIlm Festival, dove ha ricevuto il premio alla cultura. Un momento di grande commozione, in cui il maestro ha raccontato anche momenti della sua vita e del suo percorso. Poi la speciale proiezione del film “La casa delle finestre che ridono“, un vero cult.
Avati, un premio per la sua lunga carriera, che bilancio ne fa dopo tanti anni?
"Ogni riconoscimento che mi viene dato per il mio lavoro e per quello che ho fatto per il cinema è sempre molto apprezzato. E’ come una storia d’amore, con più giornate nuvolose che soleggiate. Su oltre 50 film, sono più quelli che mi hanno dato dolori rispetto a quelli che mi hanno dato gioie gioie. Devo però essere riconoscente, a quasi 86 anni sono ancora qui a scrivere, con persone che mi finanziano e si interessano a quello che faccio".
Come descriverebbe la sua lunga carriera?
"Il mio cinema è sempre stato molto alternativo, fuori dalle regole e dalle mode. Lontani dallo star system, mai con grande budget. Ho cambiato tanti generi negli anni, anche se è una cosa che gli autori solitamente non dovrebbero fare. Sono ancora in attività, e riconoscimenti come quello del Lucca Film Festival li accolgo tutti in modo molto positivo".
Che rapporto ha con “La Casa delle finestre che ridono“?
"Parliamo di un film che nacque in condizioni emergenziali, tutti i miei film che hanno lasciato una traccia sono così. E’ stato fatto in condizioni estreme. Quei momenti in cui nessuno ti vuole più far lavorare, il budget è ridotto all’osso e ci si ritrova in un numero ristretto a partire per l’avventura. I film fatti con queste condizioni di low budget sono quelli che mi hanno lasciato maggiore soddisfazione. Adesso la crisi del cinema è dovuta anche all’allargarsi dei budget, i film hanno costi che non hanno senso, c’è un rapporto completamente sballato tra costi e incassi".
Cosa ci può dire dei suoi prossimi lavori?
" A Febbraio uscirà “Orto americano“, un film gotico in bianco e nero, ambientato negli anni ‘40, che sembra di quell’epoca. Sono entusiasta di questo risultato, ho scoperto adesso il bianco e nero, e il risultato mi è piaciuto davvero molto".
Poi c’è un docufilm in arrivo, giusto?
"Sono stato scelto, e capita raramente. Mi ha chiamato Roberto Sergio, amministratore delegato della Rai, chiedendomi di produrre una docufiction sui 100 anni della radio, si chiama “Nato il 6 ottobre“, un’impresa non facile. Abbiamo deciso di raccontare in parallelo la storia della radio e di un bambino nato proprio lo stesso giorno. Credo sia una cosa molto riuscita, che racconta di un’Italia particolare, in grande crescita".
Che consiglio si sente di dare ai ragazzi che si avvicinano al cinema?
"Di imparare a fare il cinema a basso costo, bello, importante, ambizioso e con delle belle storie. Alla base di tutto c’è la storia, con una brutta sceneggiatura non sarà mai un bel film. Non siamo e non siamo mai stato Hollywood. Roma e il cinema italiano ha fatto successo portando in giro i film più poveri e quello dobbiamo tornare a fare".