TISTA MESCHI
Cronaca

A pesca di cheppie dove il fiume scorre veloce

Prosegue la pubblicazione dei racconti che l’artista Tista Meschi ha deciso di dedicare alla memoria e ai ricordi del Serchio.

di Tista Meschi

Prosegue la pubblicazione dei racconti che l’artista Tista Meschi ha voluto dedicare al Serchio. Un ‘regalo’ ai nostri lettori con cui lo scrittore e pittore lucchese ha deciso di rendere omaggio al fiume che incarna memorie e ricordi per gran parte dei lucchesi.

Oggi ve ne offriamo due.

1.

Avrei bisogno delle parole del narratore, vorrei avere le sue capacità descrittive per narrare il mio fiume, il Serchio come comunemente andrebbe chiamato, ma io, continuerò a chiamarlo “ il fiume”.

Non sono un narratore, cerco come posso di raccontare quello che mi circonda disegnando e dipingendo. Spesso non mi accontento e allora cerco di farlo con le parole che conosco. Credo così di aggiungere qualcosa in più ai ricordi di fatti, di vicende, di sensazioni ed emozioni che ho vissuto. Bene.

Ora dirò di Renzo. Era un amico di mio padre, persona colta e appassionata di pittura, seguiva mio padre quando lui, quasi ogni giorno si recava in campagna o nei luoghi preferiti a cercare soggetti da interpretare con la sua vena pittorica, era mio padre, possiamo dire un vedutista, amava Corot e i vedutisti inglesi. Spesso andava sul fiume, uno dei posti prediletti per l’aspetto romantico del paesaggio.

Renzo, come detto, lo seguiva ed essendo anche un appassionato pescatore, andare sul fiume era, per lui, anche l’occasione per gettare la lenza. Anche io, appassionato come loro spesso ci andavo, e con Renzo feci esperienze. Conobbi le acque fresche e correnti dei rasai dove le ”rovelle” si rincorrono lucenti in ”frega” e le acque profonde e calme delle ampie pozze dove si va a pescare a “fondo”, barbi e cavedani, in lunghe ore di attesa.

Renzo, nei giorni già caldi di aprile mi portava a pescare le “cheppie” su nella parte a monte del ponte di San Quirico. Lì il fiume è diverso, è selvaggio, l’acqua scorre liberamente, non ci sono grandi opere di contenimento, dilaga costruendosi l’alveo fra canneti e masse di pietra grigia, ciuffi di acacie invadenti argini malamente costruiti, la città è più lontana e la necessità di difenderla dalle inondazioni è meno necessaria.

Anche il paesaggio intorno è rude e meno romantico, pochissime sono le persone che lo frequentano, solo i renaioli vanno li a scavare buche per fare sabbia e ghiaia che si riempiono d’acqua torbida e stagnante. La visione del fiume verso le Pizzorne è più ampia l’occhio spazia senza interruzioni la campagna lontana è amena, piantagioni di meli e peri costruiscono un paesaggio variegato di colori diversi… A tratti il fiume scorre veloce, la corrente a volte impetuosa favorisce la risalita dei pesci nella loro ricerca di posti adatti per la riproduzione.

“Farem, farem come fa il pesce, noi moriremo assieme noi moriremo uniti…così, così sarà finita la nostra gioventù… ”.

Come recita una antica canzone popolare. E con Renzo appunto andavamo a pescare quelle cheppie, pesci della specie dei salmonidi, che salendo dal mare risalgono le correnti dei fiumi per deporre le uova, fecondarle in un ultimo abbraccio d’amore per poi morire. Noi li, crudeli ad interrompere quel lungo viaggio. Percorrevamo quel tratto di fiume che dal ponte San Qurico arriva fino dove la Freddana, un piccolo torrente sassoso, si unisce al Serchio. (E fu in quel torrente della mia infanzia, che pescai con una piccola rete una cheppia di grandi dimensioni, meravigliato e entusiasta corsi a casa con la grande preda mostrando il trofeo ancora vivo).

A piedi, lentamente sguazzando nei rasai , nella corrente fredda, alla ricerca di quei punti magici dove gettar la lenza con l’esca fatta di un piccolo pesce finto, colorato e luccicante, micidiale inganno per quegli affannati pesci. Percorrevo, giovane, quei tratti di fiume respirando quell’aria fresca che l’acqua corrente muove e che ogni volta dava nuove sensazioni di vita, sovrastati da quel paesaggio a volte lussureggiante e spesso arido sotto il cielo immenso visto dal basso greto del fiume. E allora mi abbandonavo a momenti felici di contemplazione… per essere risvegliato dal brusco richiamo di Renzo… e l’incanto improvvisamente si spengeva.

25 marzo 2020

7

Imparai sul fiume a camminare a piedi nudi, nell’acqua bassa fresca e scorrevole, sui sassi lisci scivolosi o ruvidi incappucciandovi l’alluce con forte dolore subito placato.

Cercare con le mani fra e a sotto i sassi quei pesci viscidi che sono i cagnacci, brutti con la testa grossa e il corpo sottile, grigi e sgradevoli. Se ne facevano discrete catture con quei rari amici, figli di contadini, che bene conoscevano assai più di me il fiume. Imparai da loro a camminare scalzo sulla ghiaia schiarita del fiume, imparai a scegliere a vista quei ciottoli piatti levigati dove posare i piedi doloranti per avere il passo agevole e a trovare ristoro negli spazi di sabbia umida tra i cespugli di vetrice.

Imparai da loro a distinguere i ritorni dell’acqua quando fa mulinelli pericolosi dai quali era meglio stare alla larga e che anche i pesci evitavano. Imparai da loro d’estate a stare seduto nei rasai con le spalle a monte e la corrente che ti gira intorno alla vita per scivolare sulle gambe fino ai piedi e poi sdraiarsi sul dorso faccia al cielo a veder scorrere le nuvole come fosse acqua simile a quella del fiume, e noi li a fantasticare come si fa da ragazzi, senza senso, in quel gioco ingenuo ma che ora ricordo con un brivido di malinconia consapevole di non provare mai più quella piacevole sensazione di libertà.

Ora quella stupida presunzione di essere maturi e quel certo ipocrita pudore me lo impedirebbero. Anche per queste cose ho imparato ad amare il mio fiume, E non sono solo i ricordi che danno il via a questi brevi racconti ma sono ancora oggi le diverse emozioni che provo e che si rinnovano anno dopo anno, nelle diverse stagioni, nei tempi che cambiano, nelle nuove occasioni.

Ora sono qui sul ponte di San Quirico, con le braccia appoggiate sulla spalletta a guardare in giù vedere l’acqua scorrere fra i sassi e fra i resti, quasi a lavarli e purificarli, di quei monconi del vecchio ponte fatto saltare con quel tremendo boato dal nemico scellerato in ritirata in una fresca mattina di un settembre mai dimenticato. In quel turbinio rapido se ne vanno questi tristi ricordi, ma alzando gli occhi la magia del Serchio si rivela nella immensità dello spazio che mi circonda nell’attualità del momento.

27 marzo 2020© RIPRODUZIONE RISERVATA