
Un combattente, Marco Corini. Dalle aule di giustizia – nel corso di una lunga e brillante carriera – al letto dove, il 25 settembre del 2015, ha esalato l’ultimo tribolato respiro, da malato terminale di cancro, consapevole dell’avvicinarsi della morte, sedato per iniziativa della sorella Marzia. La stessa che due giorni prima, al capezzale suo capezzale, aveva raccolto l’ultima determinazione, al cospetto dell’oncologo Mauro Moroni giunto da Milano per prospettare l’opportunità di una terapia-allunga vita - quella a base di Rigorafenib - tossica ma promettente. "Proviamola" era stata l’indicazione allo specialista che tre giorni dopo sarebbe dovuto arrivare con i farmaci, capaci potenzialmente di dare ancora due mesi di vita al paziente.
Un giorno-chiave il 23 settembre, fatto di propositi incrociati, tra ansia, fragilità, depressione e voglia di vivere del legale: nel primo pomeriggio il consulto col giudice Diana Brusacà per verificare la possibilità di un matrimonio-lampo con la giovane fidanzata Isabò Barrack e, in attesa della risposta, la sollecitazione all’avvocato Giuliana Feliciani affinchè convocasse a casa a stretto giro il notaio Massimo Mariani per palesargli, senza filtri, le volontà testamentarie; in serata il consulto col professore-oncologo. Marco chiese alla madre, alla sorella e a Isa cosa pensassero del nuovo percorso terapeutico. "L’ho interpretato come una richiesta di incoraggiamento" aveva detto Moroni alla Corte di assise, riavvolgendo il film di quel momento straziante, a cavallo tra la vita e la morte, desistenza e resistenza. "La madre e Isa gli hanno detto di lottare in maniera più affettuosa; Marzia ha detto la stessa cosa, in maniera più ragionata, da medico". Ne era seguita la decisione di Corini di intraprendere la terapia, con obiettivi paralleli a quello dell’allungamento della vita. "Dare una forma inoppugnabile alle sue volontà testamentarie, tutelare la convivente nel modo più efficace, ipotizzando anche un matrimonio capace di ridurre la quota di legittima della madre", ha sostenuto il pm Luca Monteverde. Il rischio per Marzia sarebbe stato quello di perdere, da lì a poco, il milione di euro indicato nel testamento da lei scritto il 18 settembre e firmato dal fratello. La procura colloca nell’evoluzione dello scenario del 23 settembre, la maturazione dei propositi di Marzia di sedare il fratello, senza attendere la nuova terapia, con l’obiettivo di accelerarne la fine. Lei, anche ieri, ha negato. Lo ha fatto con un intervento pacato e vibrante, segnato dai singhiozzi, con chi occhi che cercavano lo sguardo di ogni singolo giudice. "Non ho ucciso mio fratello. Quel giorno sarebbe morto comunque. Ho deciso di sedarlo per lenire il dolore che si era fatto per lui insopportabile, per risparmiargli l’ultimo tratto del calvario, perchè il suo distacco fosse dolce, col conforto del mio abbraccio".
Erano le 14 quando la Corte ha lasciato l’aula dopo le ultime parole di Marzia, dopo gli acuti dei difensori che, poco prima, avevano rilanciato la tesi della prima ora, quella tesa a scardinare la confessione extragiudiziaria finita agli atti del processo: le confidenze fatte dialogando al telefono con l’amica coereditiera Susanna Cacciatori, captate dai carabinieri il 21 gennaio del 2016 che fino a quell’ora indagavano sull’intrigo testamentario. "Se non l’avessi sedato non sarebbe morto". "Solo un indizio, senza riscontri. Nessuna prova per emettere un verdetto di colpevolezza. Quelle parole vanno lette come tentativo di Marzia di addossarsi il senso di colpa per non aver assistito il fratello a tempo debito, all’inizio della malattia, quando si tirò indietro di fronte alla prima richiesta di aiuto" avevano rilanciato gli avvocati Tullio Padovani e Anna Rosa Francini.
Corrado Ricci