
Chi è quest’uomo impensierito e frastornato che, torcendosi per un suo stesso richiamo, ci guarda con posa estrema? È il pittore così com’è, protetto dalle vesti del suo mestiere, abbigliato secondo le necessità del suo agire, solida cappa e berretto dalla tesa sottile, ben calcato, a proteggerne lo sguardo. Capita che si resti storditi di fronte al semplice virtuosismo di Pontormo, che “guastando e rifacendo oggi quello che aveva fatto ieri si travagliava di maniera il cervello, che era una compassione”, come rivela Giorgio Vasari descrivendo il modo di lavorare di questa mente di continuo perplessa.
E proprio Vasari, che nella seconda edizione delle Vite (1568) gli dedica un’accurata biografia, racconta la straziata esistenza di Jacopo Carucci, che deve il soprannome al luogo dove nasce allo scadere del XV secolo, Pontorme, sobborgo di Empoli, dove non molti anni prima suo padre Bartolomeo, pittore fiorentino, si era trasferito per lavoro e lì aveva trovato moglie. Una tenace ricerca di isolamento e un filo di inestinguibile malinconia sembrano essere le costanti della vita del pittore, da subito funestata da un’impressionante serie di lutti familiari, che lo lasciano solo al mondo, senza fiato. Ragazzino è a Firenze e transita per le botteghe di Leonardo, Mariotto Albertinelli e ancora Piero di Cosimo, al suo pari altrettanto svagato e ramingo, per approdare nel 1512 all’officina di Andrea Del Sarto. Qui prende spicciamente confidenza con nuove tecniche e conosce inattesi amici, primo tra tutti Giovanni Battista di Jacopo, chiamato il Rosso Fiorentino, suo sodale, e poi Andrea di Cosimo, più adulto di anni e di mestiere, fino a indispettire il suo nuovo maestro, adombrato, dice sempre Vasari, per quella facilità di scrittura che farà profetizzare a Raffaello onori futuri per il giovane allievo: “Questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest’arte in cielo”. Forzatamente, non certo per scelta, la solitudine diviene ben presto sua abitudine di vita, dapprima forse solo un intimo abbandono che nel tempo si muta in una selvaticità di modi e pensieri che lo rende ben poco propenso alla conciliazione, tanto da impedire troppo spesso ai suoi pur autorevoli committenti di osservar il corso del lavoro richiesto.
Evitava gli spazi ampli e i luoghi affollati, detestava il contatto ravvicinato con la gente e la sua casa era sollevata dal suolo, come una palafitta irraggiungibile e sospesa, dove una scala retrattile era il più agile espediente per impedire a chiunque di fargli visita. In questo clima di angustia e disamore il pittore approfondisce la meditazione su se stesso e il suo lavoro, traducendo per segni i fremiti di quel suo incessante vagare del cuore e della mente. “Alcuna volta, andando per lavorare, si mise così profondamente a pensare quello che volesse fare, che se ne partì senz’aver fatto altro in tutto quel giorno che stare in pensiero” racconta ancora Vasari.
Il nostro dipinto sembra l’esatto resoconto di questi momenti di inattività fisica ma di grande e profondo travaglio mentale e, più ancora, spirituale. L’artista così come è, uomo semplice ma dotato della capacità di fissare e trasferire per immagini la trepida passione della sua anima grazie all’uso della pittura, si ferma, si volta e si ritrae, senza espedienti né artifici. Il dipinto è eseguito rapidamente su una semplicissima tegola di terracotta, di quelle che servono per coprire i tetti delle abitazioni, quasi che la premura di dipingere gli avesse impedito di raggiungere un supporto più pertinente: qui, inciso con una punta tenace il disegno di massima, forse un chiodo altrettanto a portata di mano, Pontormo descrive il proprio volto, nell’urgenza insindacabile di fissare quel momento dell’esistenza. Sappiamo che tale tecnica, pur poco frequentata, non è solo un capriccio, dal momento che altri testi figurativi utilizzano il medesimo supporto fittile, tra i quali, i più noti, sono i pur problematici autoritratti di Filippino Lippi e di Luca Signorelli, ma anche il più tardo resoconto di Giovanni Mannozzi, detto Giovanni da San Giovanni, oggi nel corridoio vasariano, similmente concepito nella scelta cromatica e di impostazione.
Il pittore, inoltre, si ritrae – o si lascia ritrarre – altre volte, fatto questo che consente di individuarne la fisionomia attraverso le opere che recano insistentemente il suo volto. Fra queste particolarmente celebre è l’autoritratto presente nella Deposizione Capponi, conservata ancora in Santa Felicita a Firenze, dove Pontormo si raffigura nelle sembianze stranite della figura posta sull’estrema sinistra – Nicodemo –, volta a osservare l’inarrestabile prostrazione dei protagonisti della vicenda narrata: la stessa torsione del capo e lo stesso sguardo del dipinto Lia, smarrito ma fisso.
L’inesauribile Vasari, che a Pontormo riconosce, con altri pochi, l’avvio di una nuova stagione dell’arte che chiamiamo la maniera moderna, dopo la memoria del plauso dimostratogli inizialmente da Raffaello ricorda ancora l’esclamazione pronunciata da Michelangelo quando, osservandone la Fede e la Carità dipinte all’Annunziata di Firenze, ebbe a dire “questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest’arte in cielo”: esclamazione che sa pur di investitura, certo, ma dove nella previsione di gloria traspare anche incertezza di vita per quel fremente diciannovenne già fin troppo adulto, quasi fosse già spezzato, precocemente, dalla sua stessa esistenza.