Un patto straordinario per restare nella storia

La direttrice de La Nazione, Agnese Pini

La direttrice de La Nazione, Agnese Pini

Firenze, 27 febbraio 2022 - Che cosa resterà di questi giorni straordinari di Firenze? La grandezza degli ospiti, l’ambizione dei temi e degli ideali hanno già fatto guadagnare all’evento un posto nei libri di storia. Ma che cosa resterà, a Firenze e di Firenze, nel patto di pace che il Mediterraneo firma in questa nostra città?

Nasce ispirato da queste domande lo speciale che potete leggere nelle prossime pagine, a cui hanno contribuito, con la loro penna o con la loro voce prestata nelle interviste ai giornalisti de La Nazione, uomini e donne che sono i protagonisti della settimana, e del tempo, che viviamo.

Nasce perché, pensando alla vertigine di un evento che si replica a distanza di oltre sessant’anni - lo pensò, per primo, Giorgio La Pira - era indispensabile fermare sulla carta il punto in cui siamo, e da cui Firenze oggi parte, o se vogliamo riparte: il senso di ciò che la nostra città è sempre stata e può adesso diventare, sulla scia delle nuove sfide e aspirazioni che la Conferenza del Mediterraneo lascia in dote.

Nasce, questo speciale, immaginando che fra altri sessant’anni qualcuno magari potrà riprenderlo in mano, per vedere chi eravamo e come eravamo, e che cosa siamo stati capaci di fare, di seminare, in tutto questo tempo che ci viene dato. Perché Firenze, per diventare lo straordinario contenitore di un dialogo di pace, non si può sottrarre al dovere di guardare fino in fondo al suo spirito.

Del resto, come possiamo dialogare con gli altri senza prima conoscere noi stessi? Come possiamo evitare il conflitto senza fronteggiare prima il nemico che sta dentro di noi? Senza guardarci in faccia, senza metterci in discussione, senza ammettere la verità più semplice e più potente: la comprensione del prossimo non può prescindere dal fare i conti con noi stessi. Laicamente o religiosamente, ispirati ciascuno dal proprio credo, dalla propria fede, dal proprio ideale.

Qualche mese fa ho intervistato Edith Bruck, che era ospite nella Basilica di San Miniato al Monte per il Festival delle religioni. Il panorama che vedevamo, durante il nostro incontro, era più o meno lo stesso che lo sguardo sorridente di questo bambino abbraccia nella foto qui accanto, solo con un poco di nebbia novembrina al posto del sole, nel cielo sopra Firenze.

Parlo adesso di Edith Bruck perché lei raccontò, allora, un episodio della sua vita che non posso fare a meno di ripetere a me stessa, di tanto in tanto, talmente mi ha colpito al cuore. Le chiesi se credesse in Dio, se potesse credere ancora in Dio dopo essere scampata allo sterminio del campo di concentramento di Auschwitz, dove restò rinchiusa per quasi due anni, quando ne aveva appena tredici. Rispose che no, non credeva in Dio.

Poi con un sorriso aggiunse: "Una mattina, nella casa in cui vivevo con mio marito, entrarono le formiche. Invasero la cucina, come talvolta accade, erano dappertutto. Un bel guaio. Allora mio marito le fece uscire una ad una, fabbricando per loro un percorso con lo zucchero, fino al giardino. Nessuna è morta, nessuna è rimasta uccisa. Ecco, per me Dio è questo: è salvare tutte le formiche".