L’Opificio delle Pietre Dure e le sue meraviglie

L’intervista al soprintendente Marco Ciatti per conoscere il museo e la prestigiosa attività di restauro e formazione

Marco Ciatti all'inaugurazione del restauro del San Marco di Donatello in Orsanmichele

Marco Ciatti all'inaugurazione del restauro del San Marco di Donatello in Orsanmichele

Firenze, 1 aprile 2022 – L’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, con sede storica in via degli Alfani, è una prestigiosa istituzione che da secoli si occupa del restauro e della valorizzazione del patrimonio artistico del nostro Paese e non solo. Per scoprire il museo e le varie attività dell’istituto anche in tempo di Covid-19 abbiamo sentito il suo direttore Marco Ciatti.

L’Opificio delle Pietre Dure di Firenze include un museo relativo a tale manifattura e si occupa della valorizzazione del nostro patrimonio artistico attraverso restauro, ricerca e formazione. Quale la sua storia e le sue prestigiose attività?

La sua interessante storia è strettamente connessa con l’attività artistica e con l’amore per l’arte propria di Firenze nei secoli. Esso origina infatti da due diverse radici: la prima è l’antico Opificio delle Pietre Dure nato per volere del granduca Ferdinando I dei Medici nel lontano 1588 per costituire una manifattura di corte in grado di realizzare opere e arredi d’arte per le residenze medicee o per farne dono agli altri sovrani d’Europa. Si trattava di un’arte di corte di eccellenza per il grande valore delle opere e anche della manifattura: la tecnica del commesso di pietre dure, ossia una specie di tarsia fatta – invece che con il legno – con pietre semipreziose, ’un’invenzione tutta fiorentina’ a detta del Vasari che dobbiamo all’interesse per l’arte dei Medici. Il dottor Ciatti ricorda che questa tecnica richiede moltissimo tempo ed è un lavoro molto faticoso per scelta e taglio a misura delle pietre. E i Medici, oltre a singoli arredi -  piani di tavolo, riquadrature da mettere negli stipi -  avevano idea di decorare con le pietre dure tutto il loro sepolcreto di famiglia, cioè il Cappellone dei Principi a San Lorenzo. L’opera è rimasta incompiuta perché la dinastia ha avuto fine prima dei lavori. Proprio per questo da una certa epoca in poi quella che nel Cinquecento si chiamava ‘Galleria dei lavori’ nel corso della dinastia successiva, lorenese, si chiamò Opificio delle Pietre Dure.

Cosa significa il termine?

“Opificio vuol dire sostanzialmente fabbrica: oggi è un termine desueto, ma nell’Ottocento significava questo. La manifattura quindi proseguì seguendo la corte granducale ed ebbe poi un periodo di crisi con l’Unità d’Italia: non c’era più una corte da servire naturalmente, e così si trasformò l’attività.

In che modo?

Si decise di usare l’abilità delle maestranze per la conservazione delle opere e non più per la produzione delle stesse che cessò negli anni ’80 e nel nuovo stato unitario l’Opificio diventò uno strumento in mano al Ministero per intervenire dove c’era necessità. Ecco. Pochi sanno che per esempio i mosaici bellissimi delle chiese di Ravenna sono lì grazie a un enorme lavoro fatto allora dal personale dell’Opificio per restaurare questi mosaici. Nella nostra città fra fine ‘800 e i primi anni del ‘900 (1907) fu realizzato un grandissimo cantiere sui mosaici del Battistero di San Giovanni e da allora l’attività dell’Opificio è legata soprattutto alla conservazione dei generi che tradizionalmente appartenevano alla manifattura: marmi, mosaici, commessi di pietre dure, terre cotte, oreficerie, bronzi e così via. La seconda radice dell’Opificio si fonda nel collezionismo granducale, perché i Medici da una certa epoca in poi cominciarono a collezionare dipinti e dalla seconda metà del Cinquecento e soprattutto nei due secoli successivi sono documentati pittori restauratori che si prendono cura della collezione dei dipinti con interventi di manutenzione e qualche restauro. La figura di ‘restauratore di galleria’, come si chiamava allora, è durata nei secoli dalla dinastia medicea ai Lorena, dai Lorena ai Savoia e poi nel nuovo Stato unitario. Ciò fino a quando nel 1932 Ugo Procacci, giovane funzionario della soprintendenza, uno dei padri fondatori del restauro moderno a Firenze, la organizzò in modo moderno non più secondo l’idea dei singoli restauratori, ma di un laboratorio di restauro con le prime attrezzature scientifiche: si cominciò per esempio ad utilizzare la radiografia per studiare i dipinti. Così, il laboratorio, che dipendeva dalla soprintendenza, è stato protagonista di tante campagne di restauri. Fra cui i restauri delle opere danneggiate dalla guerra, ad esempio o i restauri per l’alluvione del 1966”.  Il laboratorio agli Uffizi di Ugo Procacci, distrutto dall’alluvione, fu spostato in un grande magazzino all’interno della Fortezza Da Basso allestito a tempo di record per il restauro delle opere alluvionate. Questo, con aiuti internazionali, è diventato il protagonista di tutti i restauri dell’alluvione. Si ricorda a tal proposito “il famoso Cristo di Cimabue” e tante altre opere.

E da allora?

Il passaggio successivo avviene nel 1975 quando un altro grande personaggio fiorentino come Giovanni Spadolini riesce a convincere il governo a creare per la prima volta in Italia un ministero per i beni culturali. In questa riforma del 1975 Spadolini, in accordo con Umberto Baldini - direttore allora del laboratorio - staccò il grande laboratorio della Fortezza, diventato uno dei più importanti del mondo come dimensioni e lavoro dalla soprintendenza e lo unì all’antico Opificio che sino ad allora aveva lavorato separatamente. Dall’unione di queste due realtà nasce l’Opificio moderno. Fra i vari soprintendenti si ricorda oltre a Umberto Baldini, grandi personalità come Paolucci, Bonsanti, Acidini.

Quali sono i principali settori di intervento?

L’istituto è organizzato in undici diversi laboratori, ‘settori’, che si differenziano per le tipologie di opere trattate: ce n’è uno per esempio sui dipinti su tela e tavola, uno per le sculture lignee, uno per le pitture murali e così via, a coprire quasi tutte le tipologie artistiche. Ci sono quindi restauratori specializzati sui singoli materiali e questo consente all’Opificio di avere una qualità di livello nettamente superiore a quanto avviene normalmente.

Le committenze sono solo italiane o anche estere? 

“Sono varie, soprattutto i musei. Tutte le soprintendenze e musei statali d’Italia possono chiedere l’intervento dell’Opificio, ma possono farlo anche altre amministrazioni, soprattutto la Chiesa con le sue innumerevoli opere d’arte. A volte abbiamo anche richieste dall’estero per casi molto particolari e abbiamo eseguito anche restauri per paesi stranieri. Naturalmente occorre un rapporto anche con il ministero centrale a Roma: è necessaria una loro autorizzazione.

Quali le opere più significative restaurate dall’Opificio?

“Tra il 1997 e il 1999 abbiamo restaurato, su richiesta del governo maltese, niente meno che il grande Caravaggio della Chiesa di San Giovanni alla Valletta a Malta in cui l’artista si era rifugiato. Pochi anni fa fu chiesto dalla reggia di Versailles un intervento su un vaso in pietra dura che era danneggiato: il mondo del restauro è piuttosto piccolo anche a livello internazionale. In tutti i paesi ci sono uno, non più di due grandi istituti nazionali. Ci conosciamo tutti e i colleghi stranieri sanno cosa facciamo: possono quindi cercarci sia per intervento concreto di restauro, sia per una consulenza, come è avvenuto in questi giorni dai colleghi del Louvre, per partecipare alla commissione scientifica che sovrintende il restauro di una grande pala di Cimabue al museo parigino, proveniente originariamente dall’Italia.

Quali le ripercussioni della pandemia da Covid-19 sulle attività del museo e in particolare sul lavoro di restauro e sulle relative commesse?

Per il museo abbiamo avuto le chiusure e le riaperture come tutti gli altri musei statali.

Il numero di visitatori è diminuito durante la pandemia?

Si, abbiamo dovuto limitare sicuramente gli accessi: non abbiamo però riscontrato una grande diminuzione rispetto a prima. Da qualche anno vi è un accordo con la ‘Galleria degli Uffizi per cui i visitatori della galleria con lo stesso biglietto possono visitare anche il museo dell’Opificio e questo ha portato già prima della pandemia a un bell’incremento di visitatori e una possibilità offerta al turismo. Sui laboratori abbiamo avuto un certo rallentamento nelle attività per i mesi di chiusura e ancora oggi, secondo le norme generali del ministero, c’è una minor presenza dei restauratori per evitare gli assembramenti. Quantitativamente quindi l’attività di restauro è diminuita come risultati. Quello che invece abbiamo difeso molto, evitando che avesse danni, è stata l’attività didattica. L’Opificio ha al suo interno infatti una scuola di ben cinque anni che rilascia un titolo parificato all’Università. I corsi si sono svolti ugualmente, così gli esami e anche le discussioni delle tesi. I ragazzi non hanno perso nemmeno un mese a causa della pandemia.

Può ricordarci alcune delle opere da voi recentemente restaurate?

Si, c’è veramente l’imbarazzo della scelta. Alla mostra di Donatello ve ne sono alcune: i bronzi che Donatello ha fatto per il fonte del Battistero di Siena, uno dei grandi capolavori. Abbiamo concluso poi da pochi mesi un intervento sul San Marco di Donatello di Orsanmichele e è anche quasi ultimato il restauro della pala di Santa Lucia de Magnoli di Domenico Veneziano degli Uffizi. C'è poi il restauro del ritratto del Leone X di Raffaello e ancora la Resurrezione di Piero della Francesca a San Sepolcro e il grande bronzo romano della Vittoria Alata di Brescia, ultimato con difficoltà durante la pandemia e riconsegnato alla città. Tutti i settori hanno dato un importante contributo, nonostante la situazione problematica. Il nostro personale è fatto di individui che amano il proprio lavoro, non sono semplicemente impiegati statali, ma amano le opere d’arte e quindi mettono passione, amore e impegno per la loro conservazione.

L’Opificio ha al suo interno una prestigiosa scuola di alta formazione. Quale lo spirito che la anima?

La scuola nacque nel 1978 e nel 2009-2010 è andata incontro a una grande riforma perché è uscita una nuova legge sulla formazione dei restauratori che ha portato quest’ultima a livello universitario: anche noi quindi abbiamo dovuto adeguarci al modello formativo dell’università. Oggi per diventare restauratore occorre una laurea o un titolo equiparato com’è il nostro. Occorre fare un corso di cinque anni per diventare restauratori: lo spirito è di unire un’alta formazione sia nelle materie teoriche, sia in quelle pratiche. La nostra scuola ha il suo pezzo forte soprattutto nei laboratori - aggiunge – perché, a differenza di un’università, presenta laboratori di grandi dimensioni attivi su tutti i materiali artistici e per i ragazzi imparare all’interno di questi stando accanto ai restauratori significa apprendere moltissimo.

La struttura, attualmente aperta, ha fra l’altro il vanto di essere totalmente accessibile, attenendosi alle norme di legge.

 

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