
Il protagonista raggiunge Firenze ma nella testa continua a chiedersi il perché di questa follia in Turchia
Vichi
Quando il sole è uscito del tutto mi metto a gironzolare per la nave.
Ogni tanto do un’occhiata all’orizzonte, non vedo l’ora di avvistare la costa. Il mare è calmo, verde cupo. La mattina sta diventando calda, e so che sarà lunghissima.
La gente si sveglia, si stira, mangia, fuma, sbadiglia. Dopo un’infinità di ore, sopra la riga del mare vedo finalmente un rilievo azzurrino, la Puglia che si avvicina.
I contorni della costa escono lentamente dalla foschia, e l’azzurrino indistinto si divide in colori.
"Ci vuole ancora un sacco di tempo" penso.
Torno alla mia poltrona e cerco di rimettermi a dormire. Crollo in pochi minuti. Quando mi sveglio i primi passeggeri stanno già scendendo dalla nave. Sono le dieci. Il cielo è percorso da enormi nuvole bianche. Mi stiro le ossa e mi unisco al flusso di gente. Ci metto quasi mezz’ora a scendere a terra.
Qui fa un po’ meno caldo, meno male. Ma il mio viaggio non è finito. Vado a piedi verso la stazione. Oltre al biglietto di ritorno mi sono rimaste duemiladuecento lire.
Passando da un mercato compro qualche arancia e un’altra bottiglia d’acqua. Mi restano due monete da cento, e penso che le terrò per ricordo.
Alla stazione ci sono le stesse facce di Istanbul, ma sono tutti più magri. Trovo il treno giusto e mi barrico in uno scomparto vuoto sperando che non entri nessuno.
Un’ora alla partenza. Chiudo gli occhi e ripenso ai vicoli della casbah, al mago, al ragazzino muto. Quasi mi addormento.
Un fischio, due. Sento sbattere gli sportelli. Uno strattone, un singhiozzo, e il treno si muove. Nel mio scomparto non è entrato nessuno, sono fortunato. Dopo qualche minuto mi addormento sul serio.
Nel sonno sento il treno che rallenta e mi sveglio, piuttosto rimbecillito. Guardo l’orologio. Sono passate più di otto ore e finalmente sono a Roma.
Mi trascino fino all’Intercity delle 20.30, che parte fra pochi minuti. Salgo su e trovo il mio posto.
Gli scomparti sono quasi vuoti, ma in pochi minuti si riempiono. Il treno parte silenzioso, è in orario.
Di fronte a me ho una coppia di cinquantenni napoletani che parlottano, accanto ho un olandese che ascolta musica in cuffia con gli occhi chiusi.
Cerco di dormire anch’io, ma i cellulari suonano in continuazione, tutti parlano a voce alta, e tre file più in là dei ragazzotti ridono come coglioni.
Resto in una specie di dormiveglia per un sacco di tempo, ma è peggio che stare svegli. Mi tiro su e mi metto a guardare fuori dal finestrino. La notte è bella, ci sono un po’ di stelle e una luna quasi tonda...
"La stessa che ho visto a Istanbul" penso inutilmente.
Sulle colline buie spiccano le sagome nerissime dei cipressi, moltissimi cipressi, e capisco che siamo in Toscana.
"Quanti cimiteri avete" dicono gli stranieri, senza sapere che i cipressi sono anche gli alberi delle ville.
Dopo un po’ vedo le prime case della periferia, e il treno rallenta. Passiamo davanti alla stazione di Campo di Marte, sotto il cavalcavia delle Cure, attraversiamo la stazione dello Statuto.
Penso alle migliaia di chilometri che ho fatto in due giorni e mi sento affondare in una grande tristezza.
Sono stato un idiota, lo so e me ne vergogno. Basta con le coglionate. Una donna se ne va e un’altra arriva. Devo farmi coraggio.
Quando vedo il cartello FIRENZE SMN mi alzo subito per essere il primo a scendere, ma alle uscite c’è già la coda.
(7 - continua)