REDAZIONE FIRENZE

"Si sono sentiti invulnerabili. Il gruppo cancella ogni freno"

La criminologa Anna Vagli: "Ignorate le ultime parole di Moubakir, per gli aggressori non era più una persona"

di Anna Vagli *

Moubakir Maati aveva solo 17 anni, e quella notte di fine anno, a Campi Bisenzio, non immaginava che quella corsa disperata lo avrebbe condotto verso la morte. Dietro di lui, Denis Mehmet, pratese di 20 anni, Francesco Pratesi, fiorentino di 18 anni, e Ismail Arouzi, fiorentino di 22 anni, lo hanno inseguito con ferocia. Non erano più ragazzi, ma un branco compatto e spietato, deciso a sopraffare ed uccidere con la spietatezza di killer navigati. La mano sanguinaria, secondo chi indaga, è stata quella di Pratesi, ma a sentenziare la morte di Moubakir è stato il sodalizio criminale.

Lo hanno costretto a scendere dall’autobus in cui aveva cercato rifugio, lo hanno inseguito, accerchiato, raggiunto. E lì, sotto i lampioni di una strada deserta, hanno scatenato la loro violenza. Il primo colpo è arrivato con il casco. Pesante, contundente, non è un’arma, ma nelle mani dei tre è diventato uno strumento per schiacciare, per sottomettere. Ogni colpo ha fatto rumore, al volto, al corpo, segnando la carne e spezzando la resistenza di Moubakir. Non ha ucciso, ma ha piegato. Il casco è stato il preludio, il simbolo di una violenza che non si sarebbe fermata. Insieme, i pugni e i calci. Ripetuti, incessanti, brutali. Colpi al volto, al corpo, che lo hanno lasciato vulnerabile al suolo, incapace di reagire. Nessun raptus.

La violenza non è stata impulsiva: è stata portata avanti con metodo, con una brutalità che non ha lasciato scampo. I tre non si sono fermati, spinti da una forza collettiva che li ha resi capaci di andare oltre ogni limite. I pugni e i calci non erano solo azioni meccaniche, ma un linguaggio di annientamento, una dimostrazione di potere.

La lama è comparsa a suggellare un’intenzione omicidiaria che non lasciava più dubbi. I fendenti al torace, precisi e letali, sono stati lo storytelling di una rabbia e di un odio non arginabile. Ogni colpo è stato intenzionale, mirato ad annientare. Il coltello non ha solo posto fine alla vita di Moubakir: ha trasformato quell’aggressione in un’esecuzione. La narrazione dei fatti, però, non deve essere fuorviante. Non sono stati il casco, i pugni, i calci o il coltello a rendere tutto questo possibile. È stata la dinamica del gruppo, quel meccanismo che cancella i freni, spegne le coscienze e rafforza ogni gesto. Nel branco, ogni componente si è sentito invulnerabile, legittimato, sollevato dal peso della responsabilità individuale. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di agire da solo, ma insieme hanno creato una spirale di distruzione, dove ogni gesto alimentava il successivo. Le ultime parole di Moubakir, “Non ho fatto niente,” sono state ignorate. Per i suoi aggressori, lui non era più una persona. Era stato svuotato di ogni identità, ridotto a un corpo su cui esercitare forza e controllo. Non c’è stato spazio per l’empatia, annullata dalla logica brutale del gruppo. La scena del crimine ha sentenziato. Un casco sporco di sangue, un coltello gettato, il corpo di un ragazzo lasciato sull’asfalto, segni di una violenza disumana. Non si è trattato solo di un omicidio, ma di un processo sistematico di distruzione. Moubakir è stato ridotto a nulla, vittima di una dinamica che ha reso i suoi aggressori ciechi e spietati, pronti a superare ogni limite pur di affermare la propria identità.

* Criminologa