REDAZIONE FIRENZE

La catena di montaggio globale fa le scarpe alle nostre eccellenze

La sneaker destra fatta in Cina, la sinistra in India: è l'ultimo paradosso / SORPRESA: LA SCARPA DESTRA E' FATTA IN CINA, LA SINISTRA IN INDIA

Le due 'gemelle diverse'

Firenze, 16 aprile 2015 - La fabbrica del mondo produce paradossi quotidiani. E l’ultimo ha del clamoroso: comprare un paio di scarpe a Sesto Fiorentino - sneaker di una delle marche più note e inflazionate fra i ragazzi - e scoprire con grande sorpresa, leggendone l’etichetta, che la scarpa destra è stata fabbricata in Cina, la sinistra in India. Un esempio lampante di come funzioni oggi la catena di montaggio globale e di quali frutti possa produrre l’esasperata ricerca del risparmio (quindi del guadagno) da parte dei grandi marchi che dominano il mercato.

Lo dicono anche le ultime ricerche: nei casi più clamorosi - ad esempio quelli delle cosiddette fabbriche lager cinesi - scarpe che in Italia vengo vendute a 150 euro portano nelle tasche del ragazzo cinese, indiano, pakistano che le ha prodotte con le sua mani una cifra che oscilla fra i 45 e i 90 centesimi. Incredibile vero? E sì, è vero: tutto questo non rappresenta poi una gran novità. Ma in qualche modo stupisce scoprire come la fantasia delle multinazionali non abbia confini. Come racconta fin troppo bene questa nostra, incredibile storia.

«Ho comprato un paio di scarpe di una notissima marca, conosciuta in tutto il mondo, in un negozio di Sesto Fiorentino», racconta la nostra testimone. «Ovviamente immaginavo che fossero calzature fatte in Cina, o in un altro Paese della zona, perché di solito questo tipo di marchio produce in quelle zone. Non pensavo però, come invece è capitato, che le etichette sotto le linguette disegnassero una realtà diversa: la scarpa destra fatta in Cina, quella sinistra in India». Possibile? «Evidentemente sì, ma devo confessare di non avere mai sentito parlare, prima d’oggi, di un caso del genere», dice Niccolò Giannini, presidente dei pellettieri di Confartigianato Firenze, uno che di tutela del made in Italy e anche del ‘made in Florence’ si occupa tutti i santi giorni.

«La tendenza generale, comunque, è stranota: aziende che per massimizzare i profitti spostano le loro produzioni in Paesi in cui il lavoro costa anche dieci volte meno rispetto all’Italia. Cina e India, ma sempre di più anche i Balcani, da dove arrivano i semilavorati e ormai perfino i lavori finiti». Una tendenza inarrestabile, che porta le aziende a specializzare sempre più le proprie catene di montaggio: «Immagino che così come nella fabbricazione di una borsa si decida di costruirne il corpo in un paese, il manico in un altro e la tasca interna in un altro ancora, per poi assemblare il tutto in un quarto paese, anche nel settore calzaturiero possa avvenire qualcosa del genere. E il paradosso potrebbe essere proprio questo: una fabbrica che in Cina produce la scarpa destra, un’altra fabbrica - sempre della stessa multinazionale - che in India produce la sinistra e infine l’inscatolamento che dà vita al risultato finale di cui stiamo parlando oggi».

Tutto questo per confermare che il made in Italy deve vedersela con un avversario troppo forte per illudersi di sopravvivere? «Così dicono in molti, ma a me questa rassegnazione fa sinceramente cascare le braccia», dice Giannini. Che proprio insieme a Confartigianato sta portando avanti, in ogni sede possibile, la battaglia sulla tracciabilità della produzione: «Serve chiarezza sulle aziende che partecipano alla creazione del prodotto. Una filiera trasparente rappresenterebbe un valore aggiunto per il consumatore finale, che ha diritto di sapere, al momento in cui fa un acquisto, che quella borsa pagata fior di quattrini non si romperà dopo appena sei mesi». Ma le resistenze sono tante e molto difficili da affrontare. Così per ora ci teniamo la scarpa dell’impero di Cindia: l’ultima moda destinata a fare tendenza.

​David Bruschi