
Marika Corso
Firenze, 21 giugno 2015 - E' entrata al Forteto che aveva otto anni, Marika Corso. Prima è uscita dalla comunità, poi, il giorno dopo la sua lunga deposizione al processo che la vedeva tra le parti civili, ha abbandonato anche la cooperativa. Oggi, lavora in un’altra coop, guadagna meno di prima e paga l’affitto, cresce il figlio che ha adottato e combatte con i fantasmi di un passato troppo ingombrante per essere cancellato da una sentenza di primo grado.
Anche se, ammette, sentir pronunciare la parola ‘condannati’ le ha provocato «un senso di liberazione, come se qualcuno ci avesse ascoltato finalmente, creduto. Ci dicevano che eravamo tutti pazzi, invece è venuta fuori la verità. A me basta aver sentito quella parola, condannati. Se poi andassero in carcere, meglio, perché adesso sono liberi di fare quello che gli pare, me li trovo in giro, la mia vita è condizionata. Ma è già stato fatto un gran lavoro ad arrivare alla condanna».
Cosa si aspettava dal tribunale?
«Ero preoccupata, ma speravo. I giudici mi avevano dato molta fiducia».
Com’è stato uscire dal Forteto?
«I primi anni ho cercato di fare uno stacco anche dagli altri ragazzi che erano usciti. Ho continuato comunque a lavorarci fino al 2014, ma quando tornai a lavoro dopo tre giorni di deposizione, non riuscivo più neanche a dire buongiorno. C’era un atteggiamento di falsità anche davanti ai dipendenti esterni, avevo preso coscienza che non ce la facevo a stare lì con loro. Mi son messa due mesi in malattia, poi ho deciso di entrare in un’altra cooperativa. Ho lasciato anche uno stipendio buono, adesso i miei diritti sono di meno ma sto molto meglio. Ci dicono che abbiamo fatto tutto questo per i soldi, ma io al Forteto non tornerei nemmeno se dovesse cambiare qualcosa. Quei posti mi hanno fatto stare male. Troppi ricordi, voglio fare uno stacco».
E il futuro della cooperativa?
«E’ giusto salvarla, ma io non posso tornarci neanche a prendere un caffé se me lo servono i condannati. Devono togliere loro da lì, almeno per i dipendenti esterni. Nessuno è insostituibile».
E lei come sta?
«I miei dolori non sono alleviati, ogni tanto vado in terapia dalla psicologa, ma con mio figlio sono arrivato ad essere mamma al cento per cento. Sono figlia di una tossicodipendente, morta anni addietro. Mariella Consorti, la mia mamma affidataria, mi accompagnò al suo funerale. Tornando, in macchina, mi disse: ‘anche da morta rompe i c....’».