
L’uomo nero intorno alle stragi Il falso documento e un omicidio Bellini e i misteri in riva all’Arno
di Stefano Brogioni
FIRENZE
Bologna. Ma nel destino e nell’oscuro passato di Paolo Bellini, ex avanguardista vicino ai Servizi e ultimo degli indagati per le stragi del 1993, condannato in primo grado per l’attentato alla stazione del 2 agosto del 1980, c’è anche Firenze. Anzi, quasi tutto è cominciato qui.
E’ il 14 febbraio del 1981, e i carabinieri arrestano Roberto Da Silva, ufficialmente un brasiliano con un casco di riccioli tipo quelli del cantante Lucio Battisti. Si trova su un furgone carico di mobili rubati assieme a un fiorentino, Giuseppe Fabbri, che morirà ammazzato, come si vedrà più avanti. In realtà, quell’uomo non si chiama Roberto Da Silva e non è neppure brasiliano, sebbene da laggiù sia da poco rientrato con quella falsa identità. Che resisterà ancora per molto, nonostante il soggetto giri le carceri di mezza Italia e riceva anche la visita del padre, Aldo Bellini. Tra i tanti penitenziari in cui viene trasferito, dopo Firenze, c’è anche quello di Sciacca, in Sicilia, dove stringe un forte legame con il boss Antonino Gioè. Segnatevi anche questo nome.
Intanto, ora che la storia e pure le inchieste della magistratura hanno fatto il loro percorso, si può ipotizzare che trasformarsi in Da Silva, per Bellini fosse assolutamente necessario. Perché anni dopo, dal video 8 di un turista che si trovò a Bologna mentre le macerie fumavano ancora dopo l’esplosione che uccise 82 persone, è spuntata un’immagine di quel ricciolone. Lui, Bellini, ha negato e nega, anche in certe intercettazioni recentissime che - per le minacce che indirizza alla ex moglie che lo riconobbe nel fotogramma e al giudice che gli ha dato l’ergastolo per la strage - lo hanno fatto tornare in galera. Non più come Da Silva. E con un fardello molto più pesante a cui si sono aggiunti i sospetti di aver ispirato cosa nostra nell’attacco al cuore dello Stato che colpì anche Firenze e i Georgofili.
I pentiti, tra cui Brusca, raccontano di svariati incontri in Sicilia, nel 1992, tra Bellini e l’amico Gioè. E da questi incontri sarebbe nata l’"idea criminale" di danneggiare il patrimonio artistico. "Perché il Bellini insieme a Gioè dice: se tu vai a eliminare una persona, se ne leva una e ne metti un’altra. Se tu vai a eliminare un’opera d’arte, un fatto storico, non è che lo puoi andare a ricostruire, quindi lo Stato ci sta molto attento, quindi l’interesse è molto più della persona fisica". Gioè non può confermare, però: allì’indomani delle bombe di Milano e Roma, luglio 1993, si suicida in carcere.
E Bellini? Ai processi per le stragi, comparirà come testimone. Dopo aver confessato una dozzina di delitti, anche a sfondo politico. Tra gli omicidi che la “primula nera“ si è attribuito anche quello del compare Fabbri. Fabbri venne trovato morto nel suo casolare di San Vincenzo a Torri il 10 gennaio 1986. Ad ucciderlo fu proprio Bellini per questioni relative alle spartizioni del bottino di svariati furti: ma questa verità emerse davanti ai magistrati solo nel 1999, quando Bellini era consapevole di non poter essere riprocessato in quanto già assolto. Come aveva fatto a passarla liscia? Nella sentenza di condanna per la strage, si fa riferimento alle coperture di cui avrebbe goduto. Di sicuro, il padre era amico dell’ex procuratore di Bologna Ugo Sisti, e al processo dell’omicidio Fabbri, emerse anche un dettaglio curioso, raccontato da un ex complice di Bellini. Sul tavolo, vicino al cadavere del ricettatore di Scandicci ammazzato, c’erano due tazzine di caffè, una caffettiera, e un sigaro. "Avete preso le impronte digitali?" chiese il giudice al capo della squadra mobile Ruggero Perugini. "Non abbiamo ritenuto opportuno prenderle", rispose il detective noto per il mostro di Firenze.