La stagione buia del calcio minore Stritolato da big, pandemia e bollette

Dalla battaglia con i grandi club all’insostenibilità dei costi: la fotografia di un mondo in difficoltà

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di Stefano Brogioni

Stritolati. Prima dal covid, ora dal caro bollette. Con le iscrizioni che calano e le spese che crescono.

Il calcio minore vive il suo momento più buio, in un momento in cui soffre l’intero sistema. Lo dicono i numeri dell’ultimo report, stilato dal Centro Studi della Figc. E lo scollamento è cominciato proprio dal basso. I tesserati diminuiscono, il divario tra i ricchi del professionismo e i poveri del dilettantismo è sempre più marcato e in questo preciso istante ogni piccola realtà non sa quanto potrà fronteggiare gli aumenti di costi di gestione. La crisi della pandemia aveva fatto morire tante realtà della cosiddetta base, chi ha resistito si è indebitato, o indebitato ancora di più. In questa situazione, il calcio “maggiore”, altrettanto malandato nonostante la patina d’oro che lo riveste, pur di sopravvivere sta cannibalizzando i suoi cugini più piccoli e fragili.

Scuola calcio serie A. Quelli che una volta erano i serbatoi da cui osservatori vispi pescavano i talenti, oggi sono in concorrenza con i big, che hanno allestito i propri settori giovanili e non hanno difficoltà a riempirli. Ormai da qualche stagione, con l’apertura di proprie scuole calcio o vivai “interni”, già a 8, 9, 10 anni, il calciatore dotato abbandona la squadra dell’oratorio per tentare il salto. Nell’immediato, significa una quota in meno in entrata nel bilancio della società del paese o del quartiere. E in futuro, se quel bambino diventerà un campione, al club che lo ha avviato al calcio non arriverà neanche una briciola.

Un esempio? Il trasferimento di Chiesa dalla Fiorentina, che lo ha lanciato in serie A, alla Juventus, nel frattempo approdato in Nazionale, non ha portato un soldo nelle casse della Settignanese, la squadra che lo ha allevato. Questo perché, recentemente, la Federazione ha abolito il “contributo di solidarietà”. Era una quota, pari al 3% del prezzo dell’ultimo trasferimento, che si sarebbero spartite le società che lo hanno allevato. E’ stato appunto revocato per le operazioni “domestiche”, è rimasto (per l’importo del 5%) sulle transazioni internazionali. Dando vita all’ennesima stortura: quando Cristiano Ronaldo passa dal Real Madrid alla Juventus per 100 milioni, 5 se li spartiscono Nacional Madeira, Sporting Lisbona e Manchester United con quote che variano in base alle stagioni di tesseramento fra il 12esimo e il 23esimo anno d’età.

Le battaglie della base. Maurizio Romei, patron di quella Settignanese che ha svezzato, oltre a Chiesa, altri talenti finiti in serie A (un altro è il difensore Tonelli) e tantissimi tra serie B e serie D, dentro una stanza piena di trofei vinti in giro per il mondo, parla come un don Chisciotte del calcio minore. I mulini a vento sono i vertici della Figc a cui, appena qualche mese fa, ha scritto l’ennesima lettera. La battaglia è per il premio preparazione, un riconoscimento economico che scatta all’esordio tra i professionisti ed è dovuto alle ultime tre società che hanno cresciuto il calciatore dal quattordicesimo anno d’età in su. Dalla stagione 20182019, la Federcalcio ha ampliato le stagioni da calcolare per il premio (prima erano tre anni, due società) "ma questo ha portato soltanto una guerra fra società dilettantistiche senza risolvere il problema", tuona Romei. "Perché è successo che per non pagare alcun premio preparazione o comunque decidere loro la cifra da darti, i professionisti hanno pensato bene di venire a prendere i bimbi nati cinque anni prima del quattordicesimo anno d’età". Così, al momento della firma del vincolo, i cinque anni precedenti sono passati tutti in casa propria e niente è dovuto a nessuno. E, quando i calciatori sono così piccoli si liberano automaticamente alla fine di ogni stagione sportiva. Non essendo prevista una trattativa tra le società, i “big”, forti della loro attrattiva, trattano direttamente con i genitori e raramente trovano ostacoli. "Ma questo – ammonisce Romei – significa togliere un bambino dal suo ambiente naturale dove sta crescendo, dove ha i suoi amici, compagni di scuola, e proiettarlo in un mondo spesso di false aspettative ed illusioni. E quando, dopo due o tre stagioni, solo in rarissimi casi tornano alla scuola calcio che li ha cresciuti ma cominciano a girare per per continuare a coltivare il loro sogno. In alcuni casi, qualcuno ha bisogno pure di supporto psicologico".

I numeri della recessione. Non tutti diventeranno Ronaldo, ma anche gli spiccioli, per il calcio minore, sono linfa vitale. Trovare nuove entrate per far fronte alle spese, è un’impresa a volte insormontabile. Non tutti hanno bacini d’utenza in grado d’attrarre sponsor di spessore, o una struttura che può ospitare il bar o il ristorante. Alla fine, chi paga sono gli stessi atleti, o le loro famiglie: aumentare il costo della quota d’iscrizione, ritoccare il prezzo del kit del vestiario, alzare il biglietto per l’ingresso alla partita sono i correttivi più immediati. Ma anche queste fonti d’incasso, se l’è mangiate in parte il covid. In Italia, nella stagione 2020-21, segnata dalla pandemia, si sono giocate 356mila partite di calcio giovanile in meno rispetto al 20182019. E i tesserati sono calati del 29,3%. Significa che 3 bambini su dieci che giocavano a calcio prima del covid, oggi hanno abbandonato.

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