Inchiesta antimafia, l'imprenditore Cantini ai domiciliari. E’ l’unico che ha risposto

Conclusi gli interrogatori, affievolita la misura per l'uomo, di Vicchio. Tutti gli altri indagati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere

Firenze, 24 aprile 2021 - Graziano Cantini non è più in carcere. L’imprenditore di Vicchio, che la scorsa settimana era finito a Sollicciano assieme ad esponenti di clan della ’ndrangheta che avrebbero infiltrato pure la sua impresa, è stato posto ai domiciliari dal gip, Antonio Pezzuti, in seguito allìinterrogatorio reso. "E’ il primo passo verso il riconoscimento della totale estraneità del nostro assistito a queste vicende per il quale immutata rimane la fiducia nella magistratura", dicono gli avvocati del collegio difensivo di Cantini, Federico Bagattini (nella foto), Edo Biagini e Gaetano Pacchi.

Cantini è anche l’unico, in questa tornata di interrogatori, ad aver dato una propria versione dei fatti al giudice. Tutti gli altri indagati, compreso quelli del filone concerie di Santa Croce, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. In attesa, forse, di leggere anche gli atti che i pm Giulio Monferini ed Eligio Paolini hanno depositato contestualmente all’secuzione delle misure cautelari.

Cosa ha detto Cantini al giudice? Il contenuto dell’interrogatorio è avvolto nel più stretto riserbo, ma gran parte delle dichiarazioni hanno riguardato il rapporto tra l’imprenditore e il ’factotum’ Nicola Verdiglione, divenuto dirigente dell’azienda e ritenuto anche un validissimo collaboratore dal punto di vista professionale.

Verdiglione (difeso dall’avvocato Francesco Maresca), ha preferito non rispondere al giudice ma ha chiesto di essere sentito dal pm. Sono molte le intercettazioni che danno al collaboratore della Cantini un tono di ’’potere’’ nel mondo imprenditoriale in cui si muove.

Da un lato, i rapporti con Francesco Lerose, calabrese di Cutro (il paese del boss Nicolino Grande Aracri) e con i membri del clan Gallace in Toscana, Domenico Vitale e Nicola Chiefari.

Il filone inquinamento. In questi giorni, l’Arpat sta procedendo agli accertamenti nei territori dove il ’keu’ delle concerie, transitato dall’impianto di Lerose di Pontedera, potrebbe essere stato usato per i riempimenti di sottofondo.

Rifiuti da Santa Croce, in passato, erano finiti anche nella cava di Paterno, Vaglia, assieme a scarti di salamoie della Solvay di Rosignano, rifiuti misti da demolizione, manufatti in fibrocemento e sacchi di uno scarto di lavorazioni industriali denominato ‘polverino 500 mesh’. L’inchiesta ha portato a due distinti processi presso il tribunale di Firenze, nei quali in primo grado sono stati condannati i titolari, padre e figlia, della società che gestiva l’area.

I fanghi derivanti dalla lavorazione delle concerie di Santa Croce furono trovati interrati a diversi metri di profondità all’interno della cava. Il loro interramento sarebbe risalito a diversi anni prima dell’inchiesta e per questo gli investigatori non sarebbero mai riusciti a identificare i responsabili dello smaltimento abusivo, nonostante agli atti del procedimento ci siano documenti di trasporto e testimonianze di camionisti a certificare quanto meno il tragitto.

 

 

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