Benedetta
Baldi
La giornata contro la violenza sulle donne precede di pochi giorni quella per i diritti umani. La terribile uccisione delle sorelle Mirabal il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana ha quindi un significato universale di testimonianza. A essa fanno eco le tante violenze e discriminazioni contro le donne che costellano la nostra società: i dati ISTAT dicono che un terzo delle 16-70enni ha subìto nella vita forme di violenza fisica o sessuale, e che durante la clausura per il Covid nel 2020 le richieste di aiuto sono aumentate di quasi l’80%.
Il perpetrarsi della violenza, dovunque sia, è conseguenza di una concezione atavica della distribuzione dissimmetrica dei ruoli femminili e maschili, anche attraverso la sua più tangibile e narrabile manifestazione qual è l’uso del linguaggio come codifica della disuguale identità sociale e culturale della donna, come di ogni altra forma di intolleranza contro i . Le parole agiscono di nascosto ma la loro portata semantica è illimitata; ricreano pregiudizi e discriminazioni nella storia e nella coscienza dei parlanti, spingendo il femminile in un esilio dai suoi diritti. Quindi, le discussioni sull’uso dei titoli professionali al femminile, l’attenzione ad allocuzioni comprensive di femminile e maschile e a un linguaggio sensibile all’uguaglianza di genere, non sono inutili disquisizioni ideologiche, come alcuni ironizzano, ma fanno emergere valori implicati negli enunciati. La violenza verbale sessista favorita oggi dai social, il ricorso al turpiloquio di genere e a ogni sorta di epiteto associa la donna al disprezzo. Termini e formule che agiscono come catalizzatori di pregiudizi e ribadiscono un ordine asimmetrico e disuguaglianze cognitive e culturali ancora vive. Ma il linguaggio - espressione prima della libertà – potrà combattere proprio con le sue stesse parole la violenza che le ha prodotte.
*Presidente Corso di Studi in
Scienze Umanistiche per la
Comunicazione
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