I colori gioiosi di Adriana pazza di Firenze

Biancastella

Antonino

Come si può fare il ritratto di una pittrice? Me lo sono chiesto, un po’ smarrita, quando ho deciso di dedicare ad Adriana Pincherle la mia colonna sul giornale di Firenze, la città, che lei, romana, amava tanto da averla scelta per viverci, lasciandole poi le sue carte e alcune sue opere. Adriana nasce a Roma nel 1905 in una famiglia dell’alta borghesia; sorella maggiore di Alberto, noto con lo pseudonimo di Moravia, si appassiona alla pittura sin da piccola osservando suo padre che dipingeva ad acquerello e così dopo il liceo frequenta prima l’atelier ‘per signorine’ di Alfredo Petrucci e poi si iscrive alla scuola libera del nudo all’Accademia di Roma. È lì che conosce Mimmo Spadini e Scipione che la introducono nell’ambiente artistico romano. Esordisce nel 1931 nella prima Collettiva femminile alla Galleria di Roma, dove viene notata da Roberto Longhi che seguirà la sua carriera fino a considerarla "la prediletta". È, però, in un soggiorno a Parigi nel ‘33 che matura la sua ricerca pittorica: Fauves, Renoir e l’uso del colore di Matisse avranno un’influenza notevole sul suo stile. Tornata in Italia, sposa il pittore Onofrio Martinelli e si trasferisce a Firenze che non lascerà più, tranne brevi soggiorni nella sua amata Parigi. Tra il ‘34 e il ‘36 partecipa a varie mostre tra cui, negli USA l’Exhibition of Contemporary Italian Art. Dopo la guerra, durante la quale aveva dovuto nascondersi, essendo ebrea, espone a Firenze, Milano, Venezia e nel 1955 a Roma, dove Roberto Longhi presenta, attraverso il suo percorso, la grande crescita artistica della pittrice. La Pincherle continuò a dipingere fino ai suoi ultimi giorni di vita, nonostante le frequenti perdite di memoria. Muore a Firenze nel 1996. Fabrizio D’Amico scrisse, per ricordarla, che la pittrice era rimasta sempre fedele, nei lunghi anni della sua attività, all’uso del colore "intensamente gioioso, esploso e vibrante: un colore che conosce la propria vocazione eminentemente decorativa, nel senso matissiano e nobile del termine. Un colore che sguscia via da disegno e chiaroscuro e canta liberamente la sua felicità".

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