
Artemio Franchi con Papa Wojtyla
Firenze, 9 gennaio 2022 - E’ stato un grande fiorentino, anche se dal cuore per metà senese, che ha reso grande l’Italia del calcio. E a noi piace e ci onora ricordare Artemio Franchi come fiorentino tra i fiorentini, ragazzo nato e cresciuto in via Brunelleschi, in quell’appartamento in affitto dove viveva con la mamma Maria e il padre Olinto detto Alfredo, cuoco da ’Sabatini’, un ristorante storico dove tanta storia viola è passata, e dal 1952 nella casa di famiglia in via Enrico Poggi, costruita dal padre di sua moglie Alda Pianigiani, sposata in Duomo, e dove viveva con i figli Giovanna e Francesco.
Un fiorentino, come lo ricorda per noi il figlio Francesco, "di formazione classica, che amava la sua città senza limiti, un uomo dalle grandi capacità diplomatiche e dalla forte vocazione internazionale", e che potremmo definire, in questo centenario della sua nascita, Artemio il Magnifico, il più grande dirigente della storia del calcio italiano, in un modo fra l’affettuoso e il ridondante che probabilmente lo avrebbe fatto sorridere, dall’alto di quella sua ironia, cara a tutti i fiorentini a maggior ragione se di grande importanza, quell’ironia benevola che non sfuggiva a uno dei suoi biografi e cronisti di fiducia: "Franchi era un toscano vero, arguto, spiritoso, sua ad esempio la definizione dei giocatori come ’undici uomini in mutande’, un uomo di calcio e un dirigente come non ce ne sono stati altri del suo livello dopo di lui, grande capo della federazione, capace di dare importanza e dignità internazionale al calcio italiano, e se non fosse scomparso in quel modo, così all’improvviso, sarebbe diventato sicuramente il presidente della Fifa, il numero uno del calcio mondiale", nella testimonianza di Raffaello Paloscia, amatissimo capo da tutti noi della redazione sportiva di questo giornale negli anni a cavallo dell’era-Franchi.
Quel che ci viene subito da pensare, ascoltando le parole del figlio Francesco, a sua volta consigliere federale della Federcalcio, e del nostro maestro Paloscia, è che se Franchi, nei giorni di Italia ’90, fosse stato presidente della Federazione, quella semifinale fatale con l’Argentina di Maradona non si sarebbe mai giocata a Napoli e che quella nazionale probabilmente sarebbe diventata campione del mondo. Tanta, nei giochi di potere del calcio, era la sua abilità diplomatica, unita al prestigio personale e alla conoscenza degli uomini e degli equilibri.
La sua grande passione, il calcio, nata sugli spalti dell’allora ’Berta’, dove era entrato per la prima volta da bambino con una tessera premio, per i buoni voti in pagella alla scuola elementare ’Antonio Meucci’, per poi diventare studente del liceo classico e della facoltà di economia e commercio. Nato a Firenze, l’8 gennaio 1922, ma di origini senesi, contrada della Torre. Dirigente della sezione arbitri di Firenze dal 1945 al 1949, prima della chiamata dalla casa viola, come nuovo segretario, e seppe dare il suo contributo nella preparazione della grande Fiorentina del primo scudetto portando a Firenze Magnini, Cervato, Chiappella e Rosetta, quattro quinti di quello storico pacchetto difensivo.
Da Firenze a Roma, per la sua carriera impareggiabile di statista e innovatore del calcio italiano. Fondatore della Lega di serie C, presidente federale dal 1967 al 1976, negli anni d’oro di Valcareggi commissario tecnico sotto la sua benedizione, con la vittoria dell’Europeo nel 1968 e il secondo posto ai mondiali ’70, con la mitica Italia-Germania 4-3 in semifinale. Nel 1973, Franchi viene eletto presidente dell’Uefa, la federazione europea del pallone, e nel ’74 vicepresidente della Fifa, vale a dire potentissimo numero due del calcio mondiale. Lancia Coverciano come sede permanente della nazionale, contribuisce all’assegnazione all’Italia del mondiale del 1990 e accompagna dalla sua posizione dominante il cammino trionfale dell’Italia nei mondiali spagnoli dell’82. A posteriori, in sua assenza, è stato anche accusato da Blatter (da quale pulpito) di aver manovrato le assegnazioni arbitrali per alcune partite delle coppe europee, un polverone senza seguito.
Sarebbe diventato grande capo indiscusso del calcio mondiale, se la sua passione per il Palio non lo avesse tradito, in quella sera umida del 12 agosto 1983. Stava andando all’appuntamento con Bastiano, il fantino della Torre, ma su una curva verso Asciano finì fuori strada, a 61 anni, fra le sue Crete Senesi, lasciando molto più solo il calcio italiano. Fino a pochi giorni prima, aveva tenuto testa a Henry Kissinger, che lo chiamava in continuazione a casa per convincerlo a schierare l’Europa del calcio a favore del mondiale americano del 1994. Franchi era contrarissimo a quel progetto, sosteneva che il calcio dovesse svolgere la sua funzione di sviluppo sportivo e sociale a favore dei paesi più poveri. "Ricordo benissimo le telefonate di Kissinger, ma mio padre era irremovibile", racconta il figlio.
La sua lezione e le sue idee vengono tramandate dalla Fondazione a suo nome, guidata dal figlio, e molte iniziative già pronte per commemorarlo e onorarlo nel centenario della nascita sono state rinviate causa Covid a primavera, quando verrà a Firenze anche il presidente dell’Uefa, Infantino. Due stadi a suo nome, un caso unico, a Firenze e a Siena. Unite nella memoria dell’uomo che aveva portato nel mondo e nel futuro il calcio italiano.