Covid, "Quanti errori all'inizio, ma entro l'anno raggiungeremo l'immunità di gregge"

Un anno di coronavirus in Toscana esaminato con Renzo Berti, direttore del dipartimento Prevenzione dell'Asl Toscana centro

Renzo Berti, responsabile del dipartimento di prevenzione dell’Asl Toscana centro

Renzo Berti, responsabile del dipartimento di prevenzione dell’Asl Toscana centro

Firenze, 25 febbraio 2021 - Un anno dal primo ricovero per covid in Toscana. Una data, quella del 25 febbraio 2020,  preceduta, a rileggere i giornali dell'epoca, da messaggi e comportamenti che oggi appaiono surreali. O incoscienti. Dalla partecipazione ad aperitivi dimostrativi, all'annuncio della certezza che "sarà poco più che un'influenza". All'iniziativa, di pochi giorni dopo, con musei aperti e gratuiti "contro la paura". Nessuno si sottrasse alla campagna del coraggio o almeno del non allarmismo. Rileggiamo quel 25 febbraio e dintorni con Renzo Berti, direttore del dipartimento Prevenzione dell'Asl Toscana centro e responsabile del progetto Lavoro sicuro per la Regione Toscana. 

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Berti, a rileggere certe frasi di un anno fa, vengono i brividi.  "È successo anche a me. Ed è la misura di quanto quest'anno ci abbia visti lottare contro qualcosa di sconosciuto, che nessuno sapeva come affrontare. Inizialmente, la preoccupazione fu di non creare allarmismo, convinti che l'epidemia sarebbe stata simile a un'influenza, solo un po' più forte. Hanno fatto così interi paesi come la Francia, la Gran Bretagna". Ci siamo scoperti piccoli, pur  vivendo nel villaggio globale, dove tutti dovrebbero essere a conoscenza di tutto. "La stessa Organizzazione mondiale della sanità ha impiegato del tempo, prima di definirla pandemia. Sono stati commessi errori. E sono stati  ripetuti, come si è dimostrato col trionfalistico liberi tutti estivo". Anche riguardo ai cinesi, tra Firenze e Prato, ne furono commessi. "Inizialmente il coronavirus fu interpretato come una malattia diffusa in Cina, che i cinesi, rientrando in italia e in Toscana  avrebbero trasmesso". E si è finito per affrontare la malattia non con armi sanitarie, ma con criteri socio- politici. "I cinesi sapevano che, al ritorno in Italia, sarebbero stati necessari quarantena, isolamento per due settimane. E non disponendo molti di loro locali idonei chiesero alle istituzioni alberghi sanitari". Che vennero negati per non creare ghetti. "Fu forte la preoccupazione di evitare lazzeretti, tanto più se destinati a una sola componente, identificabile per etnia" La paura di esser messi all'indice per razzismo.  "Col contrappasso che a un certo punto furono i cinesi a impedire ai figli di frequentare le nostre scuole. Al punto che lo stesso Ministero li esonerò dal tornare in aula appena rientrati dalla Cina. Il paradosso fu che noi avevamo paura dei cinesi, poi furono i cinesi, sconcertati dal ritardo con cui reagivamo al coronavirus, ad aver paura di noi". Prato, l'Osmannoro erano considerati il possibile focolaio del paese. "Invece, a Prato si è riscontrato solo un caso durante la prima fase, nella popolazione cinese". Un club service inviò mascherine a Wuhan, in Cina. Poi le mascherine mancarono a noi. "In generale, si comprese in ritardo l'importanza dei dispositivi come barriera alla  diffusione del virus". E a lungo si ritenne contagioso solo chi era sintomatico.  "Anche quella fu una sottovalutazione  da parte della comunità  scientifica. Che spiega il divario fra i numeri riscontrati oggi, con tamponi praticati alla collettività e quelli registrati allora, quando ci si limitava a testare i sintomatici".

Renzo Berti, direttore dipartimento prevenzione Asl Toscana Centro

Un errore dietro l'altro.

"Ricordare gli errori di allora, serve a capire quanto ci trovassimo di fronte a un nemico mai affrontato e dalle potenzialità incommensurabili. Oggi però ha senso rilevare che ciascun errore è stato corretto". Finalmente si individuò la strada giusta. "Ci si è accorti quanto la sanità fosse forte, sul piano professionale  ed umano" Berti, lei è medico specializzato in igiene ed epidemiologia. Ed è stato per dieci anni sindaco di Pistoia. Ha basi culturali ed amministrative, per il ruolo che occupa. Cosa l'ha colpita di più in questo anno? "Parlo a livello personale, non da amministratore: mi è rimasto impresso il contatto con colleghi: medici, infermieri di qualità incredibili. Capaci di intervenire, curare  e di progettare. E adeguarsi con grande flessibilità alle innovazioni. L'emergenza ha fatto scattare la disponibilità, la passione che sta alla base della scelta di lavorare in sanità e che non è mossa dai soldi, da gratifiche materiali". Lo hanno definito il "riscatto" della sanità pubblica. "La sanità pubblica usciva da una stagione lunghissima di tagli alle risorse umane e tecnologiche, di stress, di rinunce, coincise con la privatizzazione di servizi e settori. Non è un caso se oggi il pubblico è in difficoltà nel trovare medici, infermieri". Il vaccino sta funzionando? "Gli anticorpi  sono prodotti in ottima quantità e non ci sono segnali contrari, riguardo alla copertura delle varianti". Un anno fa ci illudevamo che sarebbe andato 'tutto bene', che sarebbe finita presto. Oggi, si possono azzardare previsioni? "La vaccinazione è una grande chance. In Toscana abbiamo approntato la macchina per distribuire le dosi. Purtroppo, c'è l'incognita forniture. Arrivano, non arrivano, ne arrivano meno: ogni giorno è un patema. Il rischio, anche in queste ore, è che a fronte di sedi e operatori pronti e un'enorme domanda che preme, manchi il vaccino". Qual è  l'obiettivo? "Intanto, raggiungere l'immunità di gregge che si ottiene con la vaccinazione del 72% della popolazione vaccinabile. Ossia circa 2,5 dei dei 3,2 milioni di toscani che hanno la  maggiore età. Entro l'anno dovremmo raggiungere quella soglia". Ai ritmi attuali non sembra possibile. "Sono ottimista per natura. Machiavelli diceva che l'arco va teso sempre al massimo. Perché, se non si raggiunge l'obiettivo, almeno ci si va vicini".

Il presidente della Regione Eugenio Giani con Renzo Berti

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