MICHELE BRANCALE
Cronaca

Cosa dice il medico: "Suicidio assistito a rischio equivoci"

Guido Miccinesi, epidemiologo e assistente spirituale "Lo chiede il 4% dei malati, problema antropologico".

La legge regionale sul suicidio assistito ha aperto domande e ferite. "Suicidio assistito: aspetti medici, etici, giuridici" è l’incontro della Conferenza Episcopale Toscana martedì 18 marzo alle 18 a Palazzo Pucci di Firenze. Dopo i saluti dell’Arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli, del card. Augusto Paolo Lojudice, presidente della Cet e di mons. Andrea Migliavacca, vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, delegato Cet per la pastorale della salute, interverranno Marco Rossi, medico, direttore della pastorale della salute della diocesi di Arezzo, Maurizio Faggioni, ordinario di bioetica, Pontificia Accademia Alfonsiana e Leonardo Bianchi, docente di Diritto costituzionale Università di Firenze. A moderare il convegno Guido Miccinesi, medico, epidemiologo, referente per la pastorale della salute per la regione ecclesiastica toscana e assistente spirituale negli hospice. Con Miccinesi affrontiamo alcune questioni.

Con le cure palliative la morte non finisce nell’imbuto della sofferenza. Però a non pochi questo approccio sembra insufficiente. Che differenza c’è tra cure palliative e suicidio assistito? "Le cure palliative non hanno motivo di essere considerate insufficienti. L’unico motivo di insufficienza è il fatto che non sono compiute in tutte le parti del nostro Paese e forse neanche nella nostra regione".

Si rischia di muoversi su un "pendio scivoloso". "Le soluzioni diverse dalle cure palliative come la morte medicalmente assistita, comparsa prima in Europa sotto forma di eutanasia e ora nel nostro Paese come suicidio, non discendono dalla stessa ispirazione, ma da esigenze diverse: da una ricerca di dignità da parte di persone che, per la loro visione antropologica, ritengono che la dignità nella morte richieda la decisione del momento in cui morire e chiedono un’assistenza. Il loro numero è esiguo, si stima un 4 % dei malati in situazioni irreversibili. Quello che si sta discutendo ora mi sembra portato avanti in punta di principio, non come un problema medico ma antropologico. Qui si verifica il rischio di un pendio scivoloso. E’ stato dimostrato che in Olanda la sperimentazione della morte medicalmente assistita ha visto allargarsi le maglie della sua applicazione. Persone anziane che ritengono di avere compiuto la loro vita hanno reclamato il diritto di essere riconosciute affette da una sofferenza insopportabile e il diritto al suicidio assistito o all’eutanasia".

Lei ravvisa nella discussione termini che ampliano il campo del suicidio assistito? "Ho potuto osservare da vicino il continuo cambiamento delle parole usate per questi fenomeni e una tendenza a costruire ambiguità e a spostare il peso delle parole stesse. Se questo stia avvenendo per il fatto che si usa il termine suicidio non lo saprei dire. C’è una ragione tecnica: si usa il termine suicidio perché dopo un periodo in Olanda in cui sembrava che si trattasse di un problema medico, che ci fosse cioè un problema morale per i medici, si decise per la depenalizzazione dell’eutanasia reclamando che essa fosse parte della Medicina. Ora si è capito bene che così non è, o non è più, e che gran parte delle richieste di morte medicalmente assistita sono avanzate oggi per decisione personale, per desiderio di autodeterminazione. Spostando così i termini della questione è bene parlare di suicidio e non di eutanasia. Aiuta a capire che non si sta parlando di atti medici, in alcun modo".

Michele Brancale