Coronavirus, il medico in pensione: "Torno a combattere in corsia ma non sono un eroe"

La storia del dottor Claudio Blé, che alla tranquillità ha preferito scendere in campo per aiutare i colleghi che aveva salutato pochi mesi prima

Il dottor Claudio Blè

Il dottor Claudio Blè

Firenze, 1 aprile 2020 - Anni fa è andato fino in Africa per combattere Ebola. Poteva restare a casa, a godersi la pensione, ora che la Toscana è messa in ginocchio dal Coronavirus? Così Claudio Blè, 65 anni, originario di Ferrara ma fiorentino d’adozione, con due specializzazioni in malattie infettive e chirurgia generale, oltre a varie esperienze in Uganda, Tanzania ed Etiopia con «Cuamm, medici con l’Africa», è tornato in corsia.

Il suo ‘saluto’ agli ospedali di Santa Maria Annunziata e di Empoli, dove lavorava, è durato appena quattro mesi, nemmeno il tempo per abituarsi a stare senza camice. Eppure non si sente assolutamente un eroe. Anzi, come molti professionisti del settore, non ama l’enfasi di questi giorni su un lavoro che è per lui la quotidianità di una vita.

Dottore, come mai la decisione di lasciare la pensione e tornare in ospedale?

«Mi è sembrato giusto così. Devo dire che in pensione stavo bene: ho una famiglia numerosa, con il figlio minore di dodici anni, e certo non mi annoiavo. Avendo una casa in campagna mi ero anche organizzato per dedicarmi alla terra e agli animali, ma a fronte di un’emergenza di questo tipo ho ritenuto giusto mettermi a disposizione».

Si è proposto lei p è stato contattato? 

«Mi stavo informando con l’ospedale di Empoli quando mi ha chiamato un’altra struttura, quindi per qualche giorno sono stato incerto sul da farsi. Ho però ritenuto giusto tornare in un ambiente che già conoscevo bene e dove avevo lavorato per anni. Così sono andato avanti con Empoli, ho firmato un contratto di collaborazione da libero professionista, come previsto in questi casi, e dal 14 marzo sono a lavoro come infettivologo».

Lei ha combattuto in prima persona contro Ebola: immaginava che il coronavirus avrebbe creato un'emergenza di questo livello?

 «Quando ascoltavamo le prime notizie dalla Cina sinceramente no. Non immaginavo una diffusione così rapida e di questa portata. Per Ebola, come per altre patologie, i contagi sono rimasti più circoscritti e, pur nelle difficoltà, medici e operatori sono riusciti a gestire la situazione. Con il Covid-19 è diverso e proprio questo è stato l’aspetto più sorprendente, anche per me. Solo quando ho visto i primi casi arrivare in Italia ho capito che il quadro sarebbe diventato molto difficile».

Com'è la situazione attuale?

«È cambiato tutto: il coronavirus ha imposto un completo stravolgimento dell’impostazione che avevamo. I reparti di medicina generale hanno dovuto trasformarsi in reparti specializzati in malattie infettive, con tutti gli accorgimenti del caso. È stato ed è uno sforzo immane, anche perché è avvenuto in pochissimo tempo. Devo dire che i medici internisti e gli infermieri di reparto sono stati eccezionali. Chi come me veniva dalle malattie infettive era già abituato a situazioni simili con la Sars, la Tbc o Ebola, ma gli altri si sono fatti carico di un lavoro enorme».

Che clima trovate tra i pazienti?

«Molto spesso le loro condizioni sono difficili, non solo e non tanto per il quadro clinico, che varia da caso a caso, ma per l’assoluto isolamento. Mancano gli affetti di sempre e anche le relazioni con medici e infermieri sono diverse. L’attenzione è la stessa, ma le cautele e gli stessi dispositivi di protezione ci rendono quasi figure aliene. Vengono a mancare il contatto fisico e quella leggerezza che anche nei reparti più difficili aiuta sia i pazienti che gli operatori».

In casa sua come hanno reagito al suo rientro in corsia?

«Mia moglie è infermiera e sta lavorando fra Empoli e Fucecchio. È in prima linea come me contro il Covid-19: non poteva che appoggiarmi».

In tanti vi chiamano eroi...

«È un’enfasi che non amo molto. Facciamo solo il nostro lavoro, mettendoci competenza e cuore. Lo abbiamo sempre fatto: oggi è solo più visibile».

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