Carlo Monni, le notti bianche di Vitellozzo fra vino, imprecazioni e poesia

Carlo Monni e le sue cene nella trattoria che chiude all’alba

Carlo Monni a tavola

Carlo Monni a tavola

Firenze, 25 febbraio 2017 - Per me, era il sindaco di Firenze. Quell’omone scapigliato, che da lontano mi vedeva e mi urlava «giornalista! Come tu stai?». Quell’omone scapigliato, vichingo fuori tempo e fuori luogo, che incontravo con i sandali da frate, la camicia aperta fino alla pancia, gli occhi ridenti, lì nella trattoria dei fratelli Briganti.

Carlo Monni. Uno che ha giocato a fare il cinema e il teatro con Roberto Benigni, e che ha giocato a vivere la vita con tutti. Un vichingo che veniva da Champs sur le Bisance, Campi Bisenzio, campagna vera, quando lui era ragazzo. «Quando venne l’Alluvione, noi ragazzi s’andò a tirar via gli animali morti dalle stalle, c’erano vacche e maiali morti, e noi lì, con l’acqua fino alla vita. Poi s’andava a casa e al telegiornale parlavano sempre degli angeli del fango, questi signorini che prendevano i libri, li spostavano, li pulivano… Bene, bene gli angeli del fango! Importante, salvare i libri! Ma… o noi? Noi che si stava tutto il giorno nella m…? A noi non ci ricordavano mai. E allora ho capito che era meglio essere intellettuale che contadino».

Carlo Monni era così. Contadino orgoglioso, uno che dava del tu alla terra, che amava camminare, sentire l’aria e il sole. Non gli piacevano i signorini, e neanche gli intellettuali. A lui, che pure era poeta, in ogni cosa che faceva. Con le parole, con la musica, con quel modo così vero che aveva da recitare.

Aveva deciso di non vivere a Roma, ma a Firenze. Di non starci, lì, a Roma, fra le terrazze, le cene, i cocktail dove s’incontra il regista giusto, il funzionario Rai che ti infila nella fiction. Lui alla fiction preferiva la verità, per esempio la verità di quella trattoria fuori dal centro, fuori dalle mode, fuori da tutto.

La trattoria dei fratelli Briganti in piazza Giorgini. C’era andato la prima volta dopo una serata al teatro di Rifredi, poco lontano. Erano gli anni ’70. Da allora, era stata una lunga storia d’amore con quel posto, con quelle atmosfere, con quella gente. Con quei due fratelli, Lido e Lionello. Uno con i baffi a manubrio da metà Ottocento, l’altro con due sopracciglia cespugliose. Tutti e due onesti, e tranquillamente accoglienti.

Per lui, era un’oasi nelle notti fiorentine. Gli piaceva la sensazione di umanità profonda di quella gente, la spigliatezza, l’armonia. Gli sembrava di entrare in casa sua. E poi, certo, gli piacevano i cibi. «Io mangio sempre una pizza a cui non hanno dato un nome preciso, nel menù. Una focaccina rossa, leggerissima, non è una margherita né una napoletana. Percepisci il pomodoro fresco, e quel vago sentore d’oliva», diceva. «Io amo il cibo genuino, il vino non artefatto, la roba non industriale». E lì la trovava.

Non era un esibizionista, non amava farsi vedere. In realtà, era molto riservato, Carlo. Lo salutavano, gli parlavano, ridevano con lui: musicisti, chitarristi, compagnie teatrali, squadre di calcetto o di basket, famiglie con i bambini. Lui parlava con tutti, ma poi lo capivi che era da solo. Lo sentivi un po’ da solo anche quando ci veniva con una donna. Le portava tutte dai Briganti. «L’umanità e la fragranza di quei cibi creano un’armonia particolare», mi confidava. «Direi che è un posto quasi erotico».

E così, una sera dopo l’altra, inverno e poi primavera, lo vedevi. A mangiare quel formaggio fresco, i carciofi sott’olio, e i famosi spaghettini. Oppure no. «A volte uno dei due fratelli si avvicina e mi dice: ‘Ho un bollito oggi che…’. E io lo prendo! E quel bollito lì, non lo mangi nemmeno a Modena», diceva.

Avrebbe potuto fare una vita diversa, Carlo Monni, corpo grosso e anima leggera, bambino infinito, poeta medievale finito in questo millennio, che mentre camminava alle Cascine pensava alle poesie di Folgòre da San Gimignano, o ai canti d’amore di Cecco da Varlungo. Avrebbe potuto fare più film, avere più soldi. Non so se sarebbe stato più felice. La felicità a volte è stare a un tavolo che conosciamo, prendere quel tovagliolo di stoffa come se si fosse a casa, e mangiare quel bollito che sembra, così buono, di non averlo sentito mai.

Ora Carlo non c’è più, dopo una vita tutta controvento. Mi vengono in mente i suoi sandali da frate, e quel modo tutto suo che aveva di dialogare con Dio, a volte urlandogli contro, cercando di stanarlo, cercando di capire se c’era. E mi ricordo il suo modo di rispettare e amare gli altri. Di cercare la poesia e non il potere, la felicità e non i soldi. E la felicità e la poesia, forse in qualche momento le ha trovate anche fra quei tavoli, fra un boccone di formaggio, una focaccina e un’occhiata alla vita che se ne va.

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