
di Bruno Berti
Le sirene della moda cantano anche per le nuove Partecipazioni statali, quelle che potremmo definire 2.0, e lo fanno guardando pure al nostro territorio. Il Fondo Italiano d’Investimento, un big del settore finanziario in cui è ben presente la Cassa Depositi e Prestiti, il cui socio di riferimento è il ministero dell’Economia e Finanze con quasi l’83%, si è impegnato nella moda dalle nostre parti. La Cassa è infatti proprietaria del 43% del Fondo, a cui, se vogliamo essere precisi, si aggiunge il 12,5 % del Monte dei Paschi, attualmente dello Stato. Il Fondo si è impegnato, insieme al private equity Vam Investments e a Italmobiliare, in un’operazione che li vede partecipare, come socio di maggioranza, nella proprietà di tre imprese toscane, tra cui una empolese, la Ciemmeci Fashion di Empoli (17,3 milioni di fatturato nel 2018). Oltre l’impresa della nostra città, che si trova nella zona industriale di Terrafino, il Fondo ha acquisito la maggioranza anche della Giuntini Spa di Peccioli (76,1 milioni di fatturato nel 2019) e della Mely’s Maglieria di Arezzo (15,5 milioni di fatturato nel 2019). La manovra portata a termine dal Fondo e dai suoi soci punta a mettere insieme produttori di eccellenza del made in Italy, toscano in questo caso, per avere un ruolo importante nello scacchiere, nevralgico per il settore, dell’export, con la possibilità di rapporti con i grandi marchi internazionali, quelli che hanno sempre ‘fame’ di prodotti di qualità.
Per questo è nata una holding, la Florence, che possiede il 100% delle tre imprese. Il Fondo e i suoi soci hanno il 65%, mentre le famiglie fondatrici delle tre imprese toscane dispongono del restante 35%: sono rimasti a far parte dell’operazione. Evidentemente, anche ai piani alti della finanza il miracolo dell’export di moda a Empoli, ora acciaccato causa virus come molte delle attività economiche non immediatamente riconducibili a esigenze basilari, comincia a essere considerato nel suo valore e nelle prospettive su cui può contare.
Lo sbarco di operatori di alto livello del comparto finanziario fornisce opportunità per il futuro, certo, ma pone anche la questione del ruolo che intendono giocare le imprese locali, che per anni hanno goduto della spinta impetuosa della crescita delle esportazioni di moda. Forse è giunto il momento di porsi il problema di quale futuro si immagina per il settore, magari confermando un ruolo da protagonista per le nostre imprese.
Bisogna infatti ricordare che le Partecipazioni statali per Empoli non sono un ricordo bellissimo. Negli anni ’70 del secolo scorso in viale Petrarca la Linexter, nome famoso nel mondo delle confezioni, aveva ceduto il passo alla Lebole, società del gruppo Eni, quindi Stato a tutto tondo. L’operazione dell’ente petrolifero, però, non era stata improntata a questioni di convenienza economica, ma, come succedeva allora, di soccorso a un’impresa (ad Arezzo la sede centrale) in cattive acque, che minacciava di mettere sul lastrico centinaia di donne. Una scelta inaccettabile per chi deteneva il potere (Amintore Fanfani, potente dirigente Dc, era aretino). Il rapporto dell’Eni con la Lebole non è quasi mai stato felice, visto che gli abiti non hanno molto a che fare con i pozzi e le raffinerie di petrolio. Soprattutto se l’abbigliamento diviene fonte di perdita. E la Lebole, al di là del marchio, conosciutissimo, perdeva appeal nei confronti dei consumatori, i clienti finali, che magari stavano prendendo confidenza con nomi come Armani, Versace e Trussardi, vista l’esigenza di compiere un salto di qualità. Le proposte della Lebole risentivano di un’epoca passata, quella dell’abito medio, non costoso, che serviva per la piccola e media borghesia. Ma le stratificazioni sociali, a partire dal ’68,avevano perso certe rigidità, un dato che si sarebbe poi concretizzato negli anni ’70, per approdare, nel decennio successivo, allo sdoganamento del lusso, magari apparente, per tutti. E quello-per il glorioso marchio di moda aretino, ed empolese, era un altro mondo.