BRUNO BERTI
Cronaca

La moda strizza l’occhio alla Cina La manodopera orientale è preziosa

Dei diecimila addetti dell’abbigliamento accreditati nell’Empolese Valdelsa, i cinesi sono un migliaio

di Bruno Berti

Gli immigrati cinesi che cuciono gli abiti, arrivando fino alle vette richieste dall’export, un vero e proprio esercito della manodopera di riserva (non in senso marxista: il politico tedesco pensava ai disoccupati), stanno mutando profondamente. Questo perché la permanenza nel nostro Paese induce a cambiamenti nei cittadini orientali, in linea con quanto è sempre avvenuto. Basti pensare al ruolo di vera e propria élite in nazioni come la Malesia assunto dagli immigrati provenienti dal Dragone, oppure agli Stati Uniti, dove la comunità cinese rientra a pieno titolo tra quelle di successo, dopo aver penato non poco nell’800. Quindi, sta suonando un nuovo campanello di allarme per il futuro di quella che potremmo definire, per intendersi, l’economia delle confezioni, a tutti i livelli uno dei volani di crescita, almeno dagli anni ’50, per il territorio dell’Empolese Valdelsa.

Il mondo delle imprese cinesi dell’abbigliamento è spesso difficile da decifrare, visto che quasi sempre non operano nei normali capannoni, ma in garage, aziende dismesse o addirittura nelle case. Però, sentendo qualche manager della moda, o imprenditori del settore che si servono delle loro attività, un quadro approssimativo si può tratteggiare. Anzitutto si deve partire dal fatto che con i cinesi il mondo delle confezioni ha un debito, poiché, senza la manodopera orientale, l’abbigliamento vivrebbe una crisi paurosa per carenza di personale, perché le cucitrici, quelle che hanno reso famosi ovunque gli impermeabili made in Empoli, sono praticamente scomparse. Le loro figlie, o nipoti, hanno cercato altre occupazioni più soddisfacenti, nel solco della dannazione del lavoro manuale.

E allora, di quei diecimila addetti dell’abbigliamento accreditati nell’Empolese Valdelsa, i cinesi sono in tutta la zona, secondo le stime, un migliaio. I ritmi di lavoro non sono più quelli di un tempo: sono finite le nottate trascorse alla macchina da cucire, con un lavoro a ciclo continuo che faceva rabbrividire qualunque sindacalista che si rispetti. Oggi ci si ferma verso mezzanotte per riprendere il mattino successivo: i turni sono passati dai tre del ciclo continuo a due. Però sembrano essere cambiate le aspirazioni. La seconda generazione sta cambiando il suo approccio con la nostra realtà. I figli di coloro che hanno vissuto i tempi d’oro, magari più per il titolare dell’azienda che per i lavoratori, guardano ad attività differenti, come la ristorazione, la gestione dei bar, le attività di parrucchiere e di estetista. I loro padri, poi, accarezzano sempre il sogno di una vita: tornare a casa con il loro gruzzolo, magari avendo pagato anche per una pensione cinese. Il cambiamento del clima nei terzisti d’Oriente della moda è dovuto anche a un elemento basilare: la seconda generazione sa benissimo da dove viene, ma non ha quasi mai intenzione di tornare nel Paese d’origine della famiglia, poco conosciuto.

Si può dire che, in genere, si sentono italiani, quanto meno perché il nostro è il Paese in cui sono cresciuti. Poi il ritorno in Cina, per trovare i parenti, è sempre previsto. Parlando con gli imprenditori della moda, emerge infatti l’effetto della decisione di Pechino di riaprire i confini dopo la chiusura causa Covid. Non sono stati pochi coloro che da fine gennaio sono tornati in patria, restandoci anche fino a un paio di mesi, in occasione del Capodanno cinese. Le nostre aziende si sono trovate con laboratori chiusi, e quindi si sono dovute ingegnare, andando a cercare chi cuciva anche fuori zona.