
Il professor Vito Pansadoro, direttore del Centro di Laparoscopia della Fondazione Vincenzo Pansadoro
Firenze, 1 giugno 2025 – È stato il primo a credere nella chirurgia mini-invasiva quando in Italia era ancora un’utopia. Pioniere della laparoscopia e poi della chirurgia robotica, il professor Vito Pansadoro, direttore del Centro di Laparoscopia della Fondazione Vincenzo Pansadoro, ha rivoluzionato l’urologia portando nel nostro Paese tecnologie che oggi sono lo standard. È lui l’ideatore del congresso internazionale “Challenges in Laparoscopy & Robotics – AI”, che dal 4 al 6 giugno 2025 riunirà a Firenze oltre 1000 delegati da più di 50 Paesi per scrivere il futuro della chirurgia. Durante questa 21ª edizione, uno dei momenti storici sarà la presentazione – in anteprima mondiale – del follow-up del primo trapianto di vescica umana, eseguito a Los Angeles dal professor Inderbir Gill, ospite fisso del congresso sin dal 2004. Pansadoro racconta in questa intervista com’è nata la rivoluzione della chirurgia robotica, come si sta evolvendo, e perché il rapporto umano con il paziente resta ancora il cuore della medicina.
Professore, lei ha portato in Italia la chirurgia laparoscopica e poi quella robotica, quando ancora erano considerate avanguardie. Cosa l’ha spinta a credere così presto nella tecnologia in sala operatoria?
«Il fascino di poter operare in modo molto meno cruento è stata la luce che ci ha guidati. Non ero il solo: eravamo un piccolo gruppo internazionale di visionari — diciamo pure un po’ matti — che pensava fosse possibile risolvere i problemi chirurgici senza aprire l’addome. Ma l’intuizione era giusta. Ci riunivamo con il professor Guglielmo Breda a Bassano del Grappa: organizzava corsi di due giorni, invitando chi cominciava a sperimentare la laparoscopia. Facevamo interventi nuovi, originali. È lì che è nata davvero la chirurgia mini-invasiva: riduzione del dolore post-operatorio, meno stress per il paziente, recuperi più rapidi. Con laparoscopia e robotica tutto questo è diventato realtà».
Dopo vent’anni di chirurgia robotica, dove siamo arrivati? E dove possiamo ancora spingerci?
«Direi che ormai è chiaro: la chirurgia laparoscopica, e ancora di più quella robotica, è la chirurgia del presente, e lo sarà sempre di più nel futuro. Si è partiti dall’urologia, dalla ginecologia e dalla chirurgia generale. Oggi l’uso si sta ampliando ad altre specialità. Il numero di robot cresce ogni anno, sempre più specializzati. Esistono robot progettati per singoli interventi: ad esempio, una società italiana con base a Pisa ha sviluppato un robot per la microchirurgia capace di suturare vasi di due millimetri. È una corsa globale, che vede in prima linea molti Paesi, soprattutto in Asia: Giappone, Corea del Sud, Cina, India. La rivoluzione va accompagnata, magari guidata, ma non ostacolata. Questa è la strada».
Si parla spesso di chirurgia “assistita” dal robot. Ma quanto conta ancora oggi la mano del chirurgo? E come cambia la formazione?
«Con questa domanda spalanca un vaso di Pandora. Io credo che il chirurgo debba ancora sapere come si apre una parete addominale, come si entra nell’addome. Non si può prescindere da queste competenze, altrimenti rischiamo di formare chirurghi incompleti. Allo stesso tempo, però, è fondamentale introdurre la chirurgia robotica fin dall’inizio del percorso formativo. Questo comporta problemi pratici, legati al numero di robot disponibili sul territorio. Ma sono difficoltà che verranno superate man mano che ci saranno le condizioni economiche e organizzative per farlo».
Il congresso “Challenges in Laparoscopy and Robotics” è oggi un riferimento mondiale. Qual è la sua visione per questa edizione?
«I primi quattro anni si chiamava Challenge in Laparoscopy, poi dal 2007 abbiamo aggiunto anche Robotics: è stata un’evoluzione continua. Nel 2013 il congresso è arrivato a Pechino, dove la robotica era allora sconosciuta. La Cina non aveva ancora alcuna esperienza in questo campo, dominato dal Nord America. Insistetti perché portassimo lì un robot dagli Stati Uniti e facessimo operare chirurghi europei e americani. Dopo una settimana, l’ospedale del mio amico e collega Xu Zhang ricevette 10 milioni di dollari con cui acquistò tre robot. Da lì la Cina ha cominciato a correre: erano già ottimi laparoscopisti, ma la robotica ha segnato un salto di qualità. Oggi la Cina conta cinque aziende che producono robot per l’urologia. E quest’anno, il professor Inderbir Gill — che partecipa al nostro congresso dal 2004 — presenterà i risultati del primo trapianto di vescica mai eseguito al mondo».
L’intelligenza artificiale entra in sala operatoria. È solo uno strumento predittivo o guiderà davvero il bisturi?
«L’intelligenza artificiale ci accompagna da anni, pensiamo ai primi smartphone. Anche in chirurgia sta evolvendo rapidamente. Da tempo stiamo “nutrendo” questi sistemi con le immagini degli interventi: è quindi plausibile che in futuro il chirurgo abbia al suo fianco un compagno virtuale, un suggeritore che lo aiuti in tempo reale. Non guiderà direttamente la sua mano, ma potrà indicare la direzione più efficace. A qualcuno sembrerà fantascienza, ma questa è la via tracciata».
Dopo una vita in chirurgia, cosa resta di insostituibile nella relazione medico-paziente?
«Ne sono convinto: il rapporto umano con il paziente è il cuore del nostro lavoro. Le persone arrivano preoccupate, spaventate, e si affidano a noi per avere una speranza. La relazione, l’empatia, l’umanità sono valori imprescindibili. E non possiamo permetterci di perderli».
C’è un’operazione, un momento, un paziente che non dimenticherà mai?
«Qualche settimana fa è tornato un paziente chiedendomi se lo ricordavo. Durante il suo intervento, sono state attaccate le Torri Gemelle. Eravamo concentrati su un’operazione complessa, ma quel momento resterà impresso nella mia memoria per sempre».