ESCLUSIVO Dalla strage di Bologna al Mostro, segreti dell'Italia nera nella casa del Sismi

Nel 1993 a Firenze spuntò fuori un arsenale di armi da un soppalco dello stesso stabile in cui avevano una sede i ’Servizi’. Negli scatoloni le prove del depistaggio di alcuni dei più grandi misteri del Paese

L'appartamento di via Sant'Agostino 3 (New Press Photo)

L'appartamento di via Sant'Agostino 3 (New Press Photo)

Firenze, 20 gennaio 2021 - Via Sant'Agostino numero 3. Mentre là fuori, scorreva la vita verace del rione dei romanzi di Pratolini, dentro le stanze di un appartamento al terzo piano di un bel palazzo che guarda la facciata della chiesa di Santo Spirito, s'intrecciavano trame oscure e si annebbiavano verità inconfessabili.

Perché è dentro le stanze di quella che fu una sede coperta del Sismi, il servizio segreto militare, fino agli anni '90, che ancora oggi pare nascosta la soluzione per decodificare le storie più fosche del nostro paese. Le Brigate Rosse, le bombe nere. I depistaggi. La strategia della tensione.

La sentenza della Corte d'Appello

E ora, perfino le pallottole dello stesso tipo di quelle usate per un'altra strage, i sedici giovani trucidati dal mostro di Firenze, conducono al solito appartamento. A rinfrescare una memoria che solo qualche commissione parlamentare ha tentato di tenere viva, ci ha pensato la corte d'appello di Bologna, che nelle duemila pagine delle motivazioni della sentenza con cui l'estremista dei Nar, Gilberto Cavallini, è stato riconosciuto colpevole della strage del 2 agosto 1980, ha ricordato cosa si scoprì a Firenze il 3 marzo del 1993. Via Sant'Agostino, numero 3.

 

La storia di quell'appartamento

Quel giorno il proprietario dell'immobile, il marchese Bernardo Lotteringhi Della Stufa, era appena tornato in possesso dei locali che il padre, morto da poco, aveva concesso in uso a una persona a cui era molto legato: Federigo Mannucci Benincasa, un colonnello dei carabinieri che per oltre vent'anni è stato il capocentro del servizio segreto militare in riva all'Arno. Mentre con un falegname, stilava l'elenco dei lavori da fare per ammodernare un monolocale posto esattamente sotto l'alloggio dato ai Servizi, il marchese s'incuriosì per degli scatoloni pesantissimi infilati in un ripostiglio. Dentro, avvolti nella carta di giornali datati tra gli anni '50 e '80, c'erano munizioni e armi ben oliate, un vero e proprio arsenale.

Il colonnello del Sismi

Il pensiero andò subito al precedente inquilino di quel palazzo, il colonnello del Sismi, e Lotteringhi si precipitò dai carabinieri della caserma di Borgognissanti. Che, ufficialmente, intervennero a sequestrare la santabarbara clandestina, che sapeva tanto di 'nasco', soltanto sette giorni dopo l'informazione, informale, che Lotteringhi Della Stufa aveva fornito a un Capitano che conosceva perché accomunati dalla passione per i levrieri. 

I barattoli del depistaggio

Il sequestro dell'arsenale

Il sequestro dell'arsenale, fu l'inizio di una serie di grane giudiziarie per Mannucci Benincasa, nome di copertura 'capitano Manfredi', che comunque risolverà uscendo assolto, dopo ben sette giudizi. La procura di Firenze lo processerà per quelle armi. Quella di Bologna gli recapiterà un avviso di garanzia per il depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione. Già, perché tra fucili, moschetti e carabine, negli scatoloni di via Sant'Agostino c'erano anche due barattoli di latta, con un buco al centro del coperchio. Contenitori identici, erano stati fatti trovare in una valigia sul treno Taranto-Milano, in quella che è stata definita l'operazione ''Terrore sui treni'' che sarebbe dovuta servire a costruire una falsa pista investigativa per (non) arrivare ai colpevoli della strage del 1980.

La Banda della Magliana

Nella valigia c'era anche un mitragliatore Mab: il pentito della Banda della Magliana, Maurizio Abbatino, dopo il suo arresto avvenuto a Caracas nel gennaio del 1992, riferirà che un'arma di quel tipo era stata consegnata al ''nero'' Massimo Carminati e questi non l'ha più restituita. E pure nel deposito della 'Banda', c'erano gli stessi barattoli da conserva con il buco sul tappo per farci passare la miccia. Nella sentenza Cavallini, i giudici ricordano altri episodi “che servono per delineare la figura del Mannucci Benincasa e il ruolo 'depistante' e assai oscuro che tenne nelle indagini per la strage di Bologna, ove si inserì quasi a forza”.

Il "collega toscano"

Il capocentro Sismi emiliano, il generale Giorgio Ferretti, dichiarerà in due occasioni al giudice istruttore, tra la fine del 1991 e la metà del 1992, di essersi sentito ''tagliato fuori'' dalle attività che seguirono l'attentato “allorquando a Bologna, a seguire le indagini venne costantemente un mio collega toscano”. Ferretti riferì di essersi imbattuto casualmente in Mannucci Benincasa alla stazione almeno due volte, senza che questi avesse mai preannunciato il suo arrivo nel territorio di competenza altrui. Per quale motivo? Ancora Ferretti, a verbale: “Cercava tracce dell'esplosivo per poterlo fare analizzare a un suo artificiere”. Cioè un ufficiale di artiglieria, Ignazio Spampinato, perito per la magistratura bolognese, che nel 1994 sarà indagato, assieme a Mannucci Benincasa (ma il reato era già prescritto), per aver rivelato, in violazione del suo ruolo di consulente, la composizione dell'esplosivo che aveva fatto 85 morti e 200 feriti.

L'anticipo sulla perizia

“Caro Federigo, in via del tutto privata e riservata, ti anticipo le analisi del noto esplosivo”, c'era scritto su un biglietto datato 8 agosto 1980 trovato al centro di controspionaggio del Sismi di Firenze. Quella soffiata era servita a far sapere in anticipo l'esito della perizia al generale Giuseppe Santovito, l'allora capo del Sismi che risulterà iscritto alla P2. “Ovvio notare – scrivono i giudici - che chi poi scelse l'esplosivo da collocare sul treno Taranto-Milano aveva bisogno di informazioni attendibili su quello usato il 2 agosto, onde poi collocarne uno analogo. O meglio: su quello che, ufficialmente, sarebbe risultato essere stato usato, alla luce delle indagini svolte”. Il giorno in cui venne trovata la valigia sul Taranto-Milano, dirà ancora Ferretti, Mannucci Benincasa era nuovamente presente alla stazione di Bologna.

I rapporti con Senzani

Il magistrato Libero Mancuso, sentito nel 2015 dalla Commissione d'inchiesta sul rapimento di Aldo Moro (seduta numero 53 di martedì 13 ottobre 2015), si stupì del fatto che dopo le perquisizioni che seguirono la scoperta dell'arsenale fiorentino, nel 1993, l'ex capocentro fosse rimasto “sostanzialmente impunito” per quella vicenda, “nonostante i figli e lui stesso insultino i nostri collaboratori sottufficiali dei carabinieri” del Ros di Firenze. Inoltre, Mancuso, identifica in quei locali di via Sant'Agostino la sede di misteriosi incontri con il brigatista Giovanni Senzani. A confermarglielo, fu proprio il colonnello. “Egli ci dice che quella base serviva per avere rapporti molto delicati con uomini della criminalità organizzata e delle Brigate Rosse”. Senzani abitava dall'altra parte dell'Arno, in Borgognissanti.

Gelli e lo schema

Durante la perquisizione a casa di Mannucci Benincasa, a Firenze, venne trovato un appunto, datato 22 febbraio 1988, firmato ''Manfredi'' in cui si manifestava l'interessa ad acquisire dall'autorità giudiziaria svizzera, che in quel momento stava procedendo nei confronto di Licio Gelli, “importanti documenti che si trovavano nell'archivio di quest'ultimo – si legge ancora nella sentenza Cavallini – con la promessa in cambio di un atteggiamento ''morbido'' del Governo Italiano nel richiederne l'estradizione”. Sempre nella perquisizione al capocentro Sismi, fu sequestrato uno schema, da lui redatto a mano, che pone in relazione il ritrovamento delle armi a Gladio e le stragi. Nell'appunto, sono schematizzate anche le ipotesi investigative di Vigna e Mancuso. 

 

I proiettili del mostro

Incredibilmente, anche l'ultimo filone d'indagine sui delitti del mostro di Firenze è andato a finire in via Sant'Agostino. Analizzando la lista del sequestro delle armi del 1993, i carabinieri si sono accorti che negli scatoloni nel ripostiglio c'era anche una scatola, con dentro 25 colpi, di proiettili Winchester serie H, stesso modello e stesso calibro (il 22) di quelli usati negli otto duplici omicidi avvenuti nella campagna toscana tra il 1968 e il 1985. 

I proiettili trovati nel ripostiglio

Nessuno tra gli inquirenti, all'epoca, mise in relazione quelle pallottole al serial killer, nonostante la pistola del 'mostro', e le sue munizioni, non siano mai state trovate e nonostante in via Sant'Agostino non ci fosse nessuna arma di quel calibro, compatibile dunque con tali cartucce. Forse perché la scoperta dell'arsenale giunse quando l'inchiesta mostro si era già concentrata sulla figura del contadino Pietro Pacciani. Oggi, a quell'arsenale, gli investigatori sono arrivati indagando su Giampiero Vigilanti, l'ex legionario 90enne (la cui posizione è stata archiviata) che nei verbali racconta di aver conosciuto l'ammiraglio Gino Birindelli e di aver fatto la scorta a Giorgio Almirante.

Anche lui, in casa, nel 1994, aveva una bella scorta di Winchester serie H uguali a quelli del mostro e a quelli dell'arsenale di via Sant'Agostino. Invece suo figlio, nel 1990 (l'anno in cui viene alla luce l'esistenza di Gladio) era stato arrestato dal Ros di Michele Riccio a Genova perché trovato in possesso di una Beretta calibro 9 che non poteva detenere. La matricola della pistola non conduceva a nessuno, e Vigilanti jr, recentemente, ha riferito ai Ros di Firenze che aveva il compito di trasportarla per conto dei Servizi. Non ha dato però indicazioni sufficienti a risalire al suo contatto.

Le altre armi fantasma

Di armi “fantasma” come quella Beretta, ce n'erano tante in un altro arsenale venuto alla luce per caso, nel 2010, dietro un muro di una casa da ristrutturare. Era la villa, a Pescia, dove aveva vissuto prima di morire il generale Giorgio Angeli, una lunga carriera nel Sismi pure per lui. 

Anche la storia dell'inchiesta del mostro di Firenze, c'è il sospetto che sia stata condizionata da depistaggi. Nel 1982, un anonimo avrebbe fatto collegare la serie omicida a un delitto avvenuto 14 anni prima, facendo così nascere la “pista sarda”, che per anni occupò gli inquirenti senza che però i delitti cessassero. A certificare il collegamento, una perizia balistica che stabilì che i bossoli del 1968, miracolosamente conservati nel vecchio fascicolo, erano stati sparati dalla stessa pistola degli omicidi successivi. A firmare quella perizia fu Ignazio Spampinato.

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