
Noto per le sue spedizioni in America Latina, nel suo lavoro univa la curiosità scientifica allo spirito libero. Poi scelse Montegonzi
Enzo Brogi
Ci sono persone che nascono per attraversare il cuore del mondo e che, un giorno, scelgono un luogo minuscolo da chiamare casa. Victor von Hagen è stato uno di loro. L’ho incontrato molti anni fa in un minuscolo fienile riadattato ad abitazione sulle colline del Chianti, a Montegonzi, nel Comune di Cavriglia. Di lui conoscevo qualche libro e la sua immagine in una celebre fotografia, accanto a un indios cacciatore di teste che regge un macabro trofeo. Poi, avevo letto del giorno in cui ritrovò il mitico quetzal - l’uccello sacro ai Maya e Aztechi - che si credeva ormai scomparso. Ne catturò nove esemplari e li consegnò alla Royal Zoological Society Britannica. Sul suo volto, già segnato dagli anni e dalle avventure fantastiche, si intuivano l’audacia e la curiosità di chi non ha mai avuto paura di perdersi. La somiglianza con Ernest Hemingway era sorprendente: stesso sguardo fiero, stessi baffi corti, stesso destino di avventure. Amava raccontare che proprio con Hemingway si fosse preso a pugni… stendendolo al tappeto. A tifare per lui c’era anche il muralista messicano Siqueiros.
Avevo letto "La grande strada del sole", quando preparavo il mio primo viaggio in Perù e Bolivia. Era il 1982 e mai avrei immaginato che quel grande esploratore vivesse a pochi chilometri da casa mia. Fu Keith Richmond, funzionario della Fao e prima suo collaboratore, a farmelo incontrare: lo ospitava nella sua casa di campagna dopo la grave malattia alla gamba (poi amputata) e le cure seguite dal professor Gianfranco Salvini, direttore del centro di riabilitazione di Terranuova. Per raggiungerlo bisognava percorrere un viottolo sterrato che scendeva in una gola zeppa di ulivi fino ad una casa colonica e, poco più in là, il fienile che Victor aveva scelto come dimora.
Entrai in una piccola cucina fredda: mi parve di capire che la stufa a legna era spenta perché non voleva funzionare o facesse troppo fumo. Victor era seduto su una sedia a rotelle coperto da un grosso maglione di lana d’alpaca ed una spessa coltre. L’amputazione lo avevano costretto a quella condizione di immobilità: "Ho dovuto scegliere: o la vita o la gamba", disse con ironica semplicità. Negli occhi, nonostante tutto, brillava ancora il viaggiatore. Keith che mi aveva accompagnato mi presentò e lui allargò le braccia, come ad abbracciarmi. Poi la stretta di mano possente, leale.
L’ambiente era angusto, sul lavandino pentole ancora da lavare, forse del giorno precedente, tanti libri, sparsi ovunque, oggetti e immagini dei viaggi. Praticamente tutto il suo “archivio di viaggio” era in quel fienile che, oggi, grazie all’impegno dell’archeologo Stefano Valentini, è custodito grazie a un accordo con l’Università al CAMNES, a Firenze (Center for Ancient Mediterranean and Near esternStudies).
Nato a Saint Louis nel 1908, da una famiglia di origine prussiana. Volle che prendessi un caffè, pronto sul fornello; lui, benché fossero neppure le dieci del mattino, teneva un bicchiere di vino bianco. Buffo, parlava un idioma tutto suo, fantasticamente intellegibile, un miscuglio di spagnolo, inglese e italiano: lo chiamava “fonaghense”.
Le cose che avevo letto svanirono nell’incontrarlo! Ascoltarlo era come vedere Marco Polo vestito da Indiana Jones. Raccontava storie fantastiche, nelle quali la realtà forse si confondeva con l’immaginazione. Difficile definire il suo mestiere: archeologo, antropologo, etngrafo, fotografo, botanico, esploratore… insomma autodidatta e avventuriero.
"Ho passato la vita a inseguire sogni", mi disse. "A studiare come viaggiano i popoli." Tutto nacque da una curiosità infantile: suo padre era tipografo e lui voleva capire perché la carta invecchiava e si macchiava. Scoprì così che furono gli Aztechi a inventare un particolare tipo di carta. Partì per cercare le piante usate da quella civiltà e il libro che ne nacque è ancora considerato una pietra miliare. Perfino la scoperta della pianta del chinino. Poi le grandi spedizioni, dal 1930 agli anni 70. Nelle foreste di Honduras e Guatemala sulle tracce dei Maya: studiò codici, riti e alchimie.
Lungo la Cordigliera delle Ande ricostruì il sistema stradale degli Inca: oltre 23.000 chilometri di vie. Questa impresa lo consacrò tra i più grandi esploratori del Novecento. Una grande e celebrata spedizione in Persia e Mesopotamia per documentare la “Via Reale” di Ciro e Dario e non solo. E ancora l’Amazzonia, tra le tribù indigene, fino all’incontro con i cacciatori di teste del Rio Napo. Gli studi e le ricerche sui sistemi di comunicazione tra popoli lontani, lo portarono infine anche in Italia, dove iniziò a studiare le strade romane. Oltre sessanta libri tradotti in tutto il mondo. Eppure, l’uomo che aveva attraversato deserti e giungle ebbe il suo ultimo campo base in un piccolo fienile nel Valdarno.
"Non serve andare lontano per esplorare", mi disse mentre fuori calava la nebbia. "Cammina fino alla Pieve di Gropina e vedrai la vecchia Cassia, dove passavano mercanti, guerrieri, pellegrini e pastori." Nel 1985, Victor von Hagen morì. Eletto sindaco di quel Comune volli dedicargli una via. E, se passo a trovare il Cunge – un anziano che abita in quella strada – ancora mi rimprovera scherzosamente: "I primi tempi non ero capace a pronunciare il mio indirizzo. Ma ora che ho imparato m’inorgoglisco assai a dire che abito in via Victor von Hagen!"