Villa Wanda resta alla famiglia Gelli: respinta la richiesta di confisca

La Procura aveva chiesto la misura di prevenzione, partita a suo tempo dall'ex questore Moja considerando Il Venerabile un soggetto ritenuto pericoloso.

Licio Gelli a villa Wanda

Licio Gelli a villa Wanda

Arezzo, 24 ottobre 2017 - Respinta la richiesta di confisca di Villla Wanda. Il procuratore Roberto Rossi aveva chiesto al tribunale (presidente Fruganti, giudici a latere Avila e Lombardo) la misura di prevenzione a carico di persone pericolose anche se defunte. Il tribunale si era riservato la decisione: che ora è arrivata. La dimora storica di Licio Gelli non diventerà un bene dello Stato, da mettere all'asta o da trasformare in un luogo di pubblico servizio, ad esempio una biblioteca.

L'iter era partito da una richiesta di sequestro e confisca fatta dall'allora questore Enrico Moja subito dopo la morte di Gelli. La legge infatti stabilisce come criterio per l'applicazione della misura di prevenzione la pericolosità in vita della persona nel mirino, anche se poi le conseguenze ricadono sugli eredi. La richiesta di Moja è stata poi fatta propria dal procuratore Rossi e discussa  davanti al collegio, alla presenza degli avvocati degli eredi del Venerabile, la moglie Gabriela Vasile e i figli Raffaello, Maurizio e Maria Grazia,

Una villa che è non solo è un patrimonio materiale ma anche uno dei simboli dell'immaginario collettivo del paese: in mille foto e in mille filmati l'immagine della villa è apparsa a corredo delle notizie che riguardavano Gelli. In passato Rossi ne aveva già disposto il sequestro nell'ambito di una vendita, ritenuta fittizia, dalla società dei figli a quella di Gabriela Vasile e di uno dei nipoti. Ma la vicenda giudiziaria si era chiusa con la prescrizione. In un'altra occasione Villa Wanda era stata oggetto di pignoramento dello stato per un debito col fisco della famiglia.

La procura e la questura chiedevano la confisca, sollecitando al tribunale una misura di prevenzione che attribuiva all’ex capo della P2 il ruolo di «socialmente pericoloso». Come un capomafia, come un Riina o un Provenzano. L’udienza si era svolta a settembre dinanzi a un collegio di giudici (Angela Avila e Lombardo) presieduto dal presidente della sezione penale Gianni Fruganti.

Da una parte il procuratore capo Roberto Rossi, dall’altra un plotoncino di avvocati per gli eredi, la moglie Gabriela Vasile, i figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, un paio di nipoti, capitanato da Raffaele Giorgetti, con a fianco Alessandro Calussi, LorianoMaccari, Stefano Buricchi ed altri. Che hanno sempre sostenuto fossero tutte storie vecchie e che una misura del genere era già stata rigettata vent’anni fa dai giudici di Arezzo e Roma.

Il dossier messo insieme dall’allora questore Enrico Moja, che avviò la pratica nel 2016, con allegata una situazione patrimoniale dei Gelli, confezionata dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, riepilogava tutte le malefatte (vere o presunte) e tutti i guai giudiziari del Venerabile, dalla P2 al Banco Ambrosiano, dalle fughe all’estero ai lingotti d’oro ritrovati proprio a Villa Wanda.

Ce n’è abbastanza, dice il dossier Moja, per dire che Gelli fosse «abitualmente dedito a traffici delittuosi» e quindi per dichiararlo persona pericolosa. Una definizione che non si estingue con la morte, ma a norma del codice antimafia del 2011 che si estende anche ai reati non mafiosi, prosegue per altri cinque anni. Il che ci fa rientrare anche la situazione di Villa Wanda e degli eredi Gelli. Ma che ora si stampa contro la decisione presa dopo lunga analisi dal presidente Fruganti.