
Attilio Brilli
Nell’estate del 1871 il versatile, famoso pittore irlandese William Davis insieme al pittore preraffaellita Edgar Barclay compiono quello che definiscono il "pellegrinaggio del Tevere", vale a dire la risalita del fiume dalla foce fino alla sorgente, seguendone a cavallo le sponde e visitando i centri che vi si affacciano o che vi sono prospicenti. Dal resoconto di questa singolare escursione redatto da Davis, sappiamo che nel tratto conclusivo che va da Sansepolcro alla sorgente sul Monte Fumaiolo, i due sono accompagnati da un terzo pittore, il grande artista visionario americano Elihu Vedder. Questi si è unito a loro a Perugia, all’epoca residenza estiva di una cospicua colonia di pittori statunitensi come Inness e Hotchkiss i quali hanno la loro sede di lavoro a Montecolognola, sulle colline che guardano il lago Trasimeno.
La relazione di Davis è la suggestiva descrizione del paesaggio appenninico che Piero della Francesca ha raffigurato sul fondale di alcuni suoi dipinti e che oggi scorgiamo dall’alto percorrendo i viadotti della superstrada E 45. All’epoca, i tre pittori non possono che procedere parte a dorso di mulo e parte a piedi. Il fatto che a scrivere sia un pittore che riporta le impressioni proprie e quelle dei compagni di viaggio è fondamentale per cogliere il fascino del luogo e delle opere d’arte.
Nella breve sosta a Sansepolcro, per esempio, la loro sensibilità artistica ci ha lasciato annotazioni inedite per l’epoca sulla pittura di Piero. Con sorprendente modernità, Davis annota infatti che talora saremmo portati a considerare i personaggi pierfrancescani come delle vere e proprie astrazioni, perché è difficile, nel mondo reale, confrontarsi con una simile grazia naturale e con un portamento che è la spiritualità in persona. Come pittori, i tre si dedicano di continuo a ritrarre scorci e vedute pittoresche o di particolare suggestione: "Barclay e Vedder hanno fatto dei bei disegni stando seduti all’ombra di un annoso faggio con il tronco contorto da una lunga, sofferente agonia", annota Davis. E ancora: "A sera, ho esplorato con Vedder, il quaderno degli schizzi alla mano, le rive di uno di questi fiumiciattoli tributari del Tevere con le sue cascatelle e le gore d’acqua nitide come lo specchio di una ninfa".
Tante sono le attrattive del paesaggio, che dopo Pieve Santo Stefano, all’altezza di Bulciano (che diventerà poi il buen retiro dello scrittore Giovanni Papini, quello dell’"Uom finito", la cui casa in loco fu affrescata da Ardengo Soffici, dipinti che il Comune di Pieve Santo Stefano ha tentato a lungo di recuperare), i tre si rammaricano di non potere fermarsi per compiere un qualche celere abbozzo. A Valsavignone, Davis scrive che nemmeno l’immaginazione di Dorè avrebbe potuto dare vita ad un paesaggio selvaggio come quello del primo Tevere racchiuso fra picchi talmente vertiginosi da escludere i raggi del sole di giorno, e la vista delle stelle di notte. I tre hanno lasciato da tempo l’armonioso paesaggio vallivo descritto da una famosa lettera di Plinio il Giovane, dove le rive del fiume sono accompagnate dalla linea sinuosa di fiorenti pioppete e costellate da gruppi di querce dalle chiome immense che si stagliano su tappeti d’erba smeraldina. Essi si trovano ormai circondati da enormi montagne che talora si aprono su esigue vallate, talaltra si restringono su gole occluse, mentre il sentiero ascende colli dirupati per perdersi nel buio del sottobosco.
E non mancano, seppur rari, i segni della presenza umana, come qualche pastore alla guida di povere greggi, voci più o meno immaginarie di briganti, o casolari che hanno inchiodata una frasca alla porta, come era d’uso nel Medioevo, quale segno di una misera mescita di vino. Dopo una lunga ascesa, superata la scabra zona delle Balze, i tre giungono alla sorgente vera e propria.
Fra i vari riascoli che vengono giù dal monte, essi seguono quello più gagliardo che li conduce ad un soffice tappeto di muschio verdognolo, una specie di radura circondata dagli alberi. Qui, gorgogliando fuori della proda erbosa decorata dai fiori bianchi delle fragole di bosco, dai delicati gerani selvatici azzurri e da salici in miniatura, scaturisce un fiotto copioso che dà origine al rivo. "E questo è quello che a Roma chiamano il Tevere!", annuncia la guida con involontaria ironia.
Davis, commosso, scrive nel taccuino: "Per noi, era come assistere alla nascita di un’entità che ha determinato il destino del mondo". Sulla via del ritorno, i tre cambiano percorso perché, seguendo il fiume Singerna, vogliono rendere omaggio a Caprese, il paese natale di Michelangelo. Oltre le sponde orlate di salici del fiume dal celere corso, essi avvistano un colle dalla forma conica sul quale sorge il paese.
Qui spuntano le rovine di un antico castello e la vecchia sede del Comune che è la casa natale dell’artista, un solido casolare di pietra con la scala esterna e la facciata parzialmente coperta dagli stemmi dei vari reggenti semi cancellati dal tempo e dalle intemperie. In mezzo ad essi risalta comunque una lapide bianca di marmo che commemora la nascita del Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele, avvenuta appena dieci anni prima.