
Pupi Avati
Arezzo 16 settembre 2019 - Il regista Pupi Avati protagonista del Premio Pieve domenica invitato per ricevere il premio “Città del diario” che si è trasformato in un incredibile monologo sulla parabola della vita: “In prossimità dei miei titoli di coda, vorrei tornare bambino e andare a casa dove mi aspettano mio padre e mia madre”. Anche Guido Barbieri, il conduttore del Premio Pieve, si commuove e dimentica di consegnare al regista Pupi Avati il libro pieno di pagine bianche tutte da scrivere, il regalo che ogni anno l’Archivio regala agli ospiti speciali. Avati, venuto a Pieve per ritirate il premio “Città del diario” prima della cerimonia ha visitato il Piccolo Museo del diario, lo scrigno di parole, voci, pagine scritte, fotografie che escono dai cassetti e ogni cassetto una storia. E’ l’ospite ideale, lui che ha raccontato al vita di gente comune in 60 anni di carriera cinematografica. Sale sul palco, prende il microfono e racconta una bellissima storia, la sua parabola della vita.
“Ho la sensazione di aver ricevuto in questi anni una serie infinita di sconfitte e di cadute, mi sono rialzato con sempre più fatica, il mio fisico è fortemente recalcitrante a tutto quello che gli chiedo. Ma le sconfitte insegnano moltissimo, nel presentarmi avete citato i film andati bene, ma una infinta serie di film sono andati male. Faccio corsi di recitazione e in genere i ragazzi più dotati, con più personalità e identità sono sempre quelli che hanno incontrato salite. E adesso che ho 80 anni so cosa è la vita. Ecco ora - dice rivolgendosi al pubblico - dovreste dire ‘ma nooo’, è così che fa il pubblico vero, siate generosi. La vita è una ellisse - prosegue - nel primo quarto sei un bambino, impari a parlare, mangiare, ridere, piangere, gattonare, amare le cose, la mamma, gli amici, i giocattoli, gli animali e il tuo tempo è il sempre. Nel secondo quarto dell’ellisse passi dall’adolescenza all’età adulta, la ragione subentra in modo tossico, si impara a stare in società, si lavora, si crea una famiglia, siamo proiettati verso la cima della collina e quando sei lassù e guardi indietro scopri che il percorso che hai fatto è stato straordinario, e non vuoi guardare quello che ti aspetta davanti per non provare una delusione profonda. Come quando scopri di aver bisogno di un paio di occhiali e di non essere più in sincrono con il tuo fisico”.
Incanta il pubblico Pupi Avati, scherza con la platea, dirige tutto da abile sceneggiatore quale è. E non dimentica l’Archivio dei diari: “Non guardo più al futuro, ma mi appoggio al passato, come la vostra straordinaria istituzione perché il futuro ci fa paura”. Ma il regista continua a spiegare la sua teoria dell’ellisse. “Il terzo quarto dell’ellisse vuol dire vivere di ricordi, di nostalgia della giovinezza, vuol dire pensare che si poteva viverla godendosela meglio e comincia il disapprendimento, è una fase naturale, e questo Archivio è pieno di nostalgia. Pensavo di fermarmi lì ma sono entrato nell’ultimo quarto dell’ellisse dove la vecchiaia fa paura e seduce allo stesso tempo. Arriva la nostalgia dell’infanzia, si vorrebbe tornare bambini e tornare ad essere figli con la mano di tuo padre e di tua madre sulla testa. Cosa mi succede? Succede che somiglio la bambino che sono stato e subentra l’idea del per sempre che avevo perduto, rimosso, cancellato. Per questo i bambini e gli anziani si somigliano tantissimo, li unisce una sintesi meravigliosa, la vulnerabilità”.
Il pubblico lo segue in silenzio, Non perde una parola di questo monologo sulla vita e sul valore del passato e della memoria. “E più sei vulnerabile più sei migliore, le persone straordinarie non sono quelle con certezze e medaglie, ma quelle con dubbi e senso di inadeguatezza, che puoi ferire con niente, gli ultimi, sono loro i migliori - afferma Avati - e quando diventi vecchio diventi una persona migliore, se non sei un deficiente. Per finire questa omelia, in prossimità dei miei titoli di coda, vorrei tornare a casa e sapere che là mi aspettano mio padre e mia madre”.