ALBERTO NOCENTINI
Cronaca

Perchè il tacchino in dialetto si chiama billo

Una parola che deriva dal caratteristico verso dell’animale importato dopo la scoperta dell’America nel bel mezzo dell’aia

di Alberto Nocentini

Una delle conseguenze della scoperta dell’America fu la comparsa del tacchino, che gli Spagnoli importarono dal Messico nei primi decenni del Cinquecento e che durante il secolo successivo si diffuse in Europa come animale da cortile; ed è a quest’epoca che risalgono le sue denominazioni. Già, ma che nome dare a un animale sconosciuto venuto dall’altro mondo? Vediamo come se la sono cavata le lingue più note. In spagnolo è stato usato il nome pavo, perché il tacchino condivide col pavone il costume di fare la ruota, motivazione che ritroviamo nel tedesco Truthahn, alla lettera ‘gallo che si gonfia’. Nella Toscana occidentale il tacchino è stato equiparato all’oca, il pennuto più grande, ed è chiamato locio, forma con fusione dell’articolo ricorrente anche in aretino come variante di ocio, e poi lucio per attrazione del nome proprio Lucio.

I nomi più diffusi sono però quelli che derivano dalla sua provenienza. Il primo a imporsi è stato pollo d’India, che si porta dietro l’erronea convinzione di Colombo di essere sbarcato nelle Indie: ne deriva il francese dindon e il dindio di molti dialetti italiani. Sempre alla provenienza fanno riferimento il portoghese peru e l’inglese turkey, che rivelano conoscenze geografiche a dir poco approssimative, dove il Messico viene scambiato col Perù e l’India colla Turchia.

C’è anche una terza possibilità, che è la più universale e consiste nell’imitazione del verso caratteristico dell’animale. Ne derivano tacchino, assunto come denominazione standard dell’italiano, da un tac tac emesso di quando in quando, e il nostrano billo, che riproduce l’inconfondibile b-lu-lu che risuona spesso nell’aia; e billo è diffuso nella Toscana sud-orientale e nelle aree confinanti dell’Umbria e del Lazio.

Le origini recenti non hanno impedito a questo animale, esotico per la provenienza e per la parvenza, di diventare del tutto familiare ed entrare a far parte dell’immaginario popolare. Comune e frequente è la locuzione rosso come un billo, da cui è ricavata la voce gergale billa per ‘sbornia’, in quanto il colore acceso del volto è uno dei segnali manifesti delle abbondanti libagioni. Il diminutivo billarino, riferito ai pulcini del tacchino, ricorre nel detto billarini vite a casa, usato per invitare bambini e ragazzi d’ogni età, ossia citti grandi e citti picini, a sgombrare e a tornarsene ognuno a casa propria sia perché fanno troppo chiasso sia perché si è fatto troppo tardi per restare ancora fuori.

Il detto ha un’origine precisa, che possiamo considerare un frammento di favolistica moderna. Un cacciatore, che se ne tornava a mani vuote e voleva riportare a casa qualcosa da mangiare, s’imbatté in una billa colla sua covata in un luogo appartato e lontano dall’aia. Approfittando dell’occasione, tirò una schioppettata alla billa e se la infilò nel carniere posteriore della giacca alla cacciatora. I pulcini, però, continuavano a seguire la mamma pigolando e fu allora che il cacciatore, di cui alcuni fanno anche nome e cognome, pronunciò la frase fatidica: billarini vite a casa, che tanto stisera la vostra mama ‘unn artonna!