
di Salvatore Mannino
Ora che è il timoniere di un’ambiziosa Feralpi Salò, lo ritroveremo da avversario, ma lui ad Arezzo non sarà mai un avversario, come accade fra compagni di avventura che hanno vissuto la stessa esperienza, mangiato la stessa polvere, assaporato la stessa gioia dopo una cavalcata epica che resterà impressa nella storia amaranto al pari delle promozioni più emozionanti e delle vittorie che non si dimenticano. Sì, fu una cavalcata straordinaria, quella di due stagioni fa con Massimo Pavanel sulla panchina di un Cavallino fallito, straccione, ma indomito, capace di una salvezza mai vista, con l’handicap di una penalizzazione di quindici punti. Roba che a ripensarla ora viene da dubitare che fosse tutto vero anche se era fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, per dirla con Shakespeare. Mai successo prima, non solo qui, e chissà se succederà ancora.
Dire che era cominciata con un pizzico di diffidenza: chi era mai questo allenatore che non si era mai seduto su una panchina vera se non su quelle delle giovanili del Verona) Ne dicevano un gran bene, ma quante volte è capitato poi di trovarsi invece di fronte a grandi delusioni? In realtà Pavanel diventa Pavanel quando sparisce l’Arezzo, nel febbraio 2018. Non c’è più la società, non c’è più un presidente, non c’è più una proprietà, resta solo lui, l’impavido Pavanel al comando di una ciurma di giocatori senza stipendio da mesi, tentati dallo sciopero, costretti a fermarsi dalla Lega che blocca il campionato dell’Arezzo. Un caos nel quale solo questo veneto timido ma determinato sa trovare le parole giuste per motivare una squadra allo sbando: "Un branco di banditi", è l’epiteto riservato ai personaggi che si alternano intorno alla società, dei quali non si capisce se siano più truffaldini o squattrinati, una tristissima banda del buco. E quella definizione che vale un’etichetta è quanto serve a ricompattare l’Arezzo che va in campo. I giocatori non se ne vanno, come pure potrebbero, a partire dal capitano Moscardelli, si stringono attorno al loro generale, l’unico che non sia fuggito in quell’8 settembre amaranto.
A marzo la società è dichiarata fallita in tribunale, ma viene concesso anche l’esercizio provvisorio grazie al quale si può tornare a giocare. Ormai, però, una squadra normale, che era stata protagonista di una stagione calcistica ordinaria, si è trasformata in una falange a testuggine. Per strada troverà la convinzione giusta a superare l’ostacolo dei quindici punti di penalizzazione per inadempienze societarie che è l’eredità più tangibile dei "banditi" bollati da Pavanel.
Le prime due partite sono di assaggio e sembrano confermare che non c’è niente da fare, nemmeno per raggiungere l’obiettivo minimo che è di giocarsi la salvezza ai play-off, evitando gli otto punti di distacco che sancirebbero la retrocessione diretta. Poi scatta qualcosa, come se si fosse accesa una lampadina. A far luce è per primo, in assenza di Mosca-gol infortunato, l’altro dioscuro dell’attacco, Aniello il Funambolo Cutolo. E’ lui il trascinatore della vittoria col Livorno capolista, è lui che giustizia il Siena (doppia soddisfazione per la vittoria nel derby e perchè serve a togliere il primo posto ai "cugini"), è lui che guida la magnifica cavalcata, nella quale si inserisce anche il successo col Pisa, unica squadra l’Arezzo ad aver fatto fuori le tre grandi del campionato. Ma dietro c’è la mano di Pavanel, grande motivatore e mente tattica di un gioco spettacolare.
L’ultima tappa è il colpaccio in trasferta di Carrara, quello che vale il balzo finale oltre l’handicap dei 15 punti. Poi Pavanel sceglie di andarsene, svuotato da una corsa oltre l’impossibile. Ma qui sarà per sempre l’uomo che fece l’impresa.