Claudio
Santori
Al Pievan Landi è dedicata una via cui si accede da via Romana, in direzione Olmo, poco dopo la rotonda. È breve, ma importante sia per i negozi che vi si affacciano, sia perché conduce a un vasto parcheggio. Chi era dunque costui? È presto detto: un sacerdote, nato e morto a Talla nel 1711 e 1794, il cui nome non è rimasto sepolto nelle filze polverose delle sacrestie grazie al "secondo lavoro", quello di poeta di facile e schietta vena, sia sul versante di quella lirica religiosa che avrà il suo culmine nell’Ottocento col Borghi e il Manzoni, sia soprattutto sul versante giocoso che precorre la produzione del Guadagnoli, ricca com’è di continue allusioni sessuali, tormentone della poesia settecentesca.
Basti pensare a quante ve ne sono nel libretto del Don Giovanni, redatto per Mozart da quella buona lana di Lorenzo Da Ponte, piuttosto libertino ancorché sacerdote, finito addirittura, dopo aver gettato la tonaca, professore di italiano in quella che è oggi la Columbia University di Manhattan, dopo aver acquisito la cittadinanza statunitense.
La vena del Landi più che giocosa è satirica e aggressiva, con una buona dose di sarcasmo, come dimostrano i tre canti della “Boscheide”, un poema in ottave contro il collega pievano Paolo Boschi. Un brevissimo saggio ci permetterà di valutarne lo stile. Boschi vien fatto discendere da un tale Lupo, l’efferato brigante che si diceva avesse rubato il saio a San Francesco, che avrebbe avuto il suo quartier generale nella rocca attigua alla Verna, oggi diruta. La madre “mentre che il parto era imminente fu con le corna da un monton ferita” e il bambino fu salvato da una zingara la quale “trovò la madre esangue che giaceva col parto semivivo appiè d’un faggio e tra la polve e ’l proprio sangue involto vide il bambin con l’ombelico sciolto”.
Al battesimo il bimbo teneva la manina stretta a pugno, senza modo di fargliela aprire. Come nelle fiabe si presentò la zingara con una profezia: “”Dal levante fino al ponente in avarizia non avrà l’eguale, e mi dimostra quella man ristretta ch’egli sarà una pittima perfetta”.
E così via di attacco in attacco (...niente avea di civil, poco d’umano... più s’affatica il Boschi e più s’ingegna più d’ignoranza la sua mente è pregna …) fino all’interruzione a metà del terzo Canto perché stava diventando troppo offensivo e l’autore correva il rischio di qualche ritorsione. Morto Boschi, al vescovo Carlo Filippo Incontri che lo esortava a scrivere qualcosa per rimediare alle offese della “Boscheide” rispose: “Il Pievan Boschi tal morì qual visse; il Pievan Landi quel che scrisse scrisse”. La sua cultura, frutto di vaste letture, gli rendeva facile il verseggiare sia in italiano che in latino e lo rendeva intollerante del malcostume e dell’ignoranza di tanti ecclesiastici.
Un sonetto contro un non meglio identificato don Ascanio, che si era innamorato di una vecchia, rivela quanto il malcostume fosse diffuso: “Che del prete al pugnal, faccia ogni pelle un fodero gradito, è cosa chiara; siano brutte le donne o siano belle che non piacciano al prete è cosa rara … ma confondersi dietro a una carogna che più pel non avrà nella castagna, don Ascanio, per Dio, questa è vergogna!”. Quando gli fu riferito che una ragazza di dubbia moralità nelle doglie del parto invocava santa Elisabetta, commentò: “Senza far voti a santa Elisabetta chi non vuol partorir la tenga stretta!”.
Fu ascritto all’Accademia dei Forzati d’Arezzo col nome di Dameta e godette della piena considerazione del Vescovo Incontri che lo ordinò sacerdote e gli assegnò la Pieve di San Giovanni in Capolona Il Settecento aretino vide fiorire agricoltura, commercio, arti e lettere, con una vita intensa che si ripercuoteva anche nella provincia: di questa vita il Landi fu partecipe, spettatore e interprete.
La leggenda popolare lo ricorda per memorabili scherzi, anche pesanti, giocati ad amici e nemici. Clamoroso quello giocato alla serva di un collega che non l’aveva invitato ad una sua festa. Mentre costei cucinava l’arrosto a cottura lenta, la indusse a scendere in cantina con la scusa di voler controllare la qualità del vino. Fece un buco in una botte e le disse di metterci il dito; poi ne forò un’altra e costrinse la donna a metterci il dito dell’altra mano. La lasciò così “crocifissa” a strillare finché non fu udita da qualcuno: ma l’arrosto era bruciato. Ad Arezzo è mancato un poeta che cantasse la Giostra del Saracino: l’avrebbe fatto bene il Landi.
Il suo capolavoro è il poemetto in ottave, “Le lodi di Porta San Clemente”, scritto in contrasto con le maldestre lodi che il collega Angelo Lorenzo Grazzini aveva fatto di Colcitrone: “Di qui passan quegli ottimi prosciutti che trasmette il famoso Casentino; di qui le grosse pere e i dolci frutti che mancan nel suol fertile aretino. I porcin freschi ed i prugnoli asciutti seguon per questa porta il lor cammino. Il pesce poi che appesta ogni contrada batte di Colcitron la sozza strada!”.
In punto di morte riciclò la frase famosa attribuita a Benedetto XIV, Prospero Lambertini. Al giovane sacerdote che gli portava il viatico dicendogli: “Pievano, vi porto il Signore” ebbe la prontezza di spirito di rispondere: “Lo so, lo vedo dalla cavalcatura!”. Chissà che in qualche occasione non abbia anticipato la supercazzola.