
Filippo Bagni e Piero Bruni, le due vittime dell’Archivio di Stato
Due morti sul lavoro, undici imputati, dieci richieste di condanna, tutte sotto i due anni, e una sola richiesta di assoluzione. È il bilancio del processo per la tragedia dell’Archivio di Stato di Arezzo, dove il 20 settembre 2019 Filippo Bagni e Piero Bruni persero la vita asfissiati da una nube di argon, un gas inodore e letale. Erano scesi nel seminterrato per controllare un allarme, ma rimasero intrappolati in una camera di morte. Oggi, a più di sei anni dai fatti, alla Vela del tribunale di Arezzo è attesa la sentenza di primo grado. La procura contesta agli imputati, a vario titolo, l’omicidio colposo per la morte dei due dipendenti, oltre a una serie di reati accessori legati alla progettazione, realizzazione e manutenzione dell’impianto antincendio, ritenuto non conforme e pericoloso.
A inizio febbraio, nella requisitoria della pm Laura Taddei, sono arrivate richieste di pena comprese tra un anno e otto mesi e un massimo di due anni, tutte con sospensione condizionale e attenuanti generiche riconosciute. Per Claudio Saviotti, all’epoca direttore dell’Archivio, e per la sua predecessora Antonella D’Agostino, è stata chiesta una condanna a un anno e otto mesi. Stessa pena per l’allora comandante dei vigili del fuoco Antonio Zumbo, e per Andrea Pierdominici, Piero Sant’Antonio e Andrea Gori, anche se per quest’ultimo è stata chiesta anche una contestuale assoluzione su alcuni capi. Più alta la richiesta per Monica Scirpa, Simone Morelli e Gianfranco Conti: un anno e dieci mesi.
La condanna più pesante è quella richiesta per Maurizio Morelli: due anni, più otto mesi e una multa da 800 euro per un capo d’imputazione legato all’appalto. Per Alessio Vannaroni, invece, è stata chiesta l’assoluzione piena. Secondo la ricostruzione dell’accusa, quel giorno di settembre si attivò un allarme alle 7.40 del mattino. Bruni e Bagni scesero per verificare, ma a causa di una concatenazione di difetti — un vetrino di separazione non originale, una valvola montata al contrario e un errore nella programmazione — l’impianto rilasciò il gas mortale proprio nel locale dove si trovavano i due. Non verso i locali da proteggere, ma nello stanzino del seminterrato. Per loro non ci fu scampo.
La procura ha puntato il dito anche contro la gestione interna dell’Archivio: secondo l’accusa, i lavoratori non erano stati formati sull’effetto letale dell’argon, né erano stati predisposti sistemi di sicurezza o procedure adeguate. "Nemmeno noi ne eravamo a conoscenza", hanno dichiarato gli ex direttori durante il dibattimento. Nella memoria depositata il 21 febbraio, gli avvocati delle famiglie — Piero Melani Graverini e Luca Fanfani per la famiglia Bruni, Riccardo Gilardoni per la vedova di Bagni — hanno parlato apertamente di una somma di inadempienze, errori e omissioni che hanno reso l’impianto non solo inefficace ma pericoloso.
Le richieste di risarcimento ammontano a 470mila euro complessivi: 100mila euro ciascuno per la moglie e i due figli di Bruni, 70mila per la sorella, e 100mila euro per la vedova di Bagni. Una cifra simbolica, che non potrà mai colmare il dolore per due vite spezzate mentre stavano semplicemente facendo il proprio lavoro. Dopo oltre venti udienze e una lunga battaglia tra consulenze e perizie, oggi si attende il verdetto. Toccherà al giudice Giorgio Margheri scrivere l’ultima parola di quello che sarà comunque, con ogni probabilità, un primo capitolo.
Luca Amodio