MATTEO
Cronaca

"Morire nel silenzio del mondo". Guerre dimenticate, l’urlo birmano

Dietro Kiev e Gaza l’altra faccia del pianeta: il racconto di un analista aretino, l’addio alle case e alla terra

"Morire nel silenzio del mondo". Guerre dimenticate, l’urlo birmano

"Morire nel silenzio del mondo". Guerre dimenticate, l’urlo birmano

Giusti

La riunione del Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri dell’Unione Europea ha messo sul tavolo le situazioni più critiche che stanno coinvolgendo in maniera diretta ed indiretta il continente europeo. Al primo posto naturalmente la situazione in Medioriente, seguita da ciò che accade in Ucraina, nel cuore dell’Europa. All’ordine del giorno però anche il punto sulla guerra civile in Sudan, quasi completamente dimenticata dai media, ma che da un anno sta insanguinando il paese africano.

In Lussemburgo l’inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sudan Ramtane Lamamra ha presentato una relazione per fotografare la drammatica situazione che sta vivendo il popolo sudanese. Il ministro degli Esteri algerino ha riacceso i riflettori su un conflitto che ha già causato oltre 20mila morti e alcune centinaia di migliaia di feriti. Nell’arco di un anno quasi 15 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni e circa 3 milioni sono rifugiate nei campi profughi in Egitto, Eritrea, Etiopia, Ciad e Sud Sudan. Un paese in ginocchio che adesso vede anche il rischio di una fortissima carestia che potrebbe travolgere i 45 milioni di abitanti.

La guerra sudanese contrappone l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, capo di stato che ha preso il potere con un golpe, ed il comandante della milizia paramilitare delle Forze di Supporto Rapido il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, addestrato ed armato dai mercenari russi del Wagner Group. I due ex alleati hanno dilaniato il paese trasformando la capitale Khartoum nel principale campo di battaglia. Lo scontro continua a fasi alterne, ma i governativi controllano l’80% della città e la maggioranza delle province. I paramilitari restano forti e radicati in Darfur, la martoriata provincia orientale, dove negli anni hanno compiuto un autentico genocidio contro le popolazioni autoctone africane. In Sudan si giocano diverse sfide geopolitiche e oltre ai russi hanno forti interessi gli egiziani, che sostengono al-Burhan e i sauditi che invece negli anni hanno fornito supporto economico al ribelle Hemeti.

Una guerra feroce e sanguinaria che è però ormai uscita dai radar e che non fa più notizia. Il Sudan non è il solo paese con una guerra che non riempie più le pagine dei giornali. Gli strascichi dei fallimenti delle cosiddette Primavere arabe hanno lasciato tre stati dilaniati da conflitti interni: lo Yemen, salito agli onori della cronaca per gli attacchi dei ribelli Houthi nel Mar Rosso, la Siria, dove Turchia, Russia e Stato Islamico si affrontano strappandosi porzioni di territorio e la Libia, divisa a metà fra due governi anche qui sostenuti da Ankara e Mosca pronte a saccheggiare le ingenti riserve petrolifere libiche. Ma il conflitto più lungo e dimenticato resta quello del Myanmar, stato asiatico conosciuto fino a metà anni ’90 come Birmania.

Nella sua storia costellata di colpi di stato e di continue prese di potere da parte di giunte militari sempre più feroci, il Myanmar ha visto le prime elezioni libere nel 1990, ma i generali si rifiutarono di cedere il potere e arrestarono la vincitrice della tornata elettorale Aung San Suu Kyi, vincitrice del premio Nobel per la Pace che verrà ripetutamente arrestata e liberata fino al 2010. Proprio nel 2010 si tennero nuove elezioni, ma la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi non partecipò denunciando pesanti brogli. Solo nel 2015 il partito di Aung San Suu Kyi è tornato a partecipare, vincendo ancora una volta le elezioni, ma l’esercito ha mantenuto il controllo di dicasteri chiave e del 25% dei seggi parlamentari. Indebolito e controllato il nuovo governo birmano è stato travolto nel 2021 da un nuovo colpo di stato orchestrato dal generale Myint Swe. Arresti e deportazioni hanno nuovamente e pesantemente colpito il partito di maggioranza, scatenando le proteste di piazza di un popolo notoriamente pacifico. Questa volta però le minoranze birmane, da sempre perseguitate e represse dalle giunte militari, hanno iniziato una guerriglia senza precedenti unendo le forze ed alleandosi al People’s Defence Force, il braccio armato del National Unity Government, il governo clandestino costituito dopo l’ennesimo golpe.

Il conflitto ha già provocato circa 12mila morti ed oltre un milione di sfollati interni e l’esercito regolare bombarda con l’aviazione città e villaggi delle minoranze per stanare i guerriglieri. Ma il governo centrale mantiene il controllo soltanto delle principali città e delle vie di comunicazione, mentre le aree di confine sono saldamente nelle mani dei miliziani. Le Nazioni Unite hanno approvato la prima risoluzione sul conflitto birmano soltanto dopo un anno e mezzo di combattimenti, questa volta senza il veto della Cina, vecchio protettore della giunta- al potere in Birmania.

I giornalisti non possono entrare nel Paese per raccontare questa guerra e le potenze occidentali ignorano questa regione che rientra nell’influenza di Pechino con il risultato che in Birmania si continua a morire nel silenzio del mondo.