di Marianna Grazi
Arte, creatività, fiducia, libertà. Tanti i temi che Afran, artista camerunense da anni in Italia, affronta a durante il festival Aspettando Naturalmente Pianoforte. Dopo aver ridipinto il pavimento artistico del La.B, ex Lanificio Berti, il 15 luglio ha tenuto un laboratorio creativo sul tema "L’intelligenza artistica come vera alternativa all’AI", mentre stasera sarà protagonista, con il pianista Luis Di Gennaro e l’attrice Monica Melesi, della performance ispirata alla favola "La capra del signor Seguin". Com’è andato il laboratorio con i giovani artisti? "Molto bene. C’erano bambini e artisti già formati: abbiamo riflettuto sulle sfide future dell’arte. Con l’IA tutto cambia, bisogna immaginare nuove prospettive. È stato molto costruttivo parlarne". L’arte è in crisi? "Sì. Molti compiti prima degli artisti ora li svolge l’intelligenza artificiale. Per esempio, nella grafica: un tempo serviva la tecnica, oggi basta un prompt. L’arte deve ritrovare il senso della sua esistenza, andare oltre la funzione. È un momento difficile ma anche di svolta: come saltare un muro di 3 metri inseguiti da un leone nella savana, sotto pressione si scoprono risorse nuove. L’arte si era adagiata dopo il dopoguerra, ora deve svegliarsi". Ha ancora senso parlare di artista, se tutti possono fare arte? "È un problema urgente. I criteri si sono allargati, ma questo ha anche favorito l’ingresso di cialtroni. Io penso che Maurizio Cattelan ci indichi una via: la sua banana con lo scotch è emblematica. Dietro all’artista c’è un passato e un contesto. Cattelan aveva già scotchato il suo gallerista al muro, rivendicando il potere di farlo. Poi ha scelto di non produrre più per anni. Quando è tornato, ha esposto la famosa banana, una rinuncia che diventa espressione. Ha mostrato come il sistema dell’arte si sia trasformato in consumo. Invece oggi fare arte significa caricare un oggetto anche banale di magia. L’arte è fiduciaria: serve ricreare un legame con il pubblico". Cosa vuole esprimere la performance di stasera? "La favola di Daudet non ha un finale alla ‘e vissero tutti felici e contenti’. Mi affascina l’ambiguità della morale: riflette sulla libertà, la storia, la memoria". Si sente legato a questi luoghi? "Moltissimo. È nato subito un legame con il territorio e la gente".