La terra intra Tevero e Arno. I versi di Dante, le pesti evitate e la Chiana che portava a Roma

Le citazioni nella Divina Commedia, il ruolo di ‘rastrello’ contro le epidemie del Seicento. Nell’antichità il Canale Maestro era navigabile verso la Capitale, poi le paludi e la bonifica.

La terra intra Tevero e Arno. I versi di Dante, le pesti evitate e la Chiana che portava a Roma

La terra intra Tevero e Arno. I versi di Dante, le pesti evitate e la Chiana che portava a Roma

Claudio

Santori

Non tutti sanno che l’antico fiume Clanis, oggi canale maestro della Chiana dopo l’inversione del suo corso, consentiva un collegamento via acqua fra Arezzo e Roma con imbarcazioni che, giunte a Orvieto, consentivano di immettersi nel Tevere a Orte, tramite un suo affluente, il fiume Paglia. È noto che le civiltà antiche, come pure le rispettive capitali, erano condizionate per la loro nascita dalla conformazione del territorio e soprattutto dall’indispensabile e vitale presenza dell’acqua: non è dunque un caso se gli Etruschi, agricoltori provetti, abilissimi nella gestione delle acque, individuarono la piana aretina come ideale per un insediamento urbano destinato a essere dominante per avere il vantaggio di poter sviluppare l’acropoli su due colli, quelli su cui oggi sorgono la Fortezza e la Cattedrale. Qui si distendeva il Foro romano, non più percepibile a causa del successivo riempimento.

La piana era circondata da alture ricche di minerali ferrosi, era allo sbocco delle quattro vallate aretine. Solcata da due grandi fiumi: l’Arno e il Tevere, risorse idriche e vie di comunicazione.

Tutto questo è rappresentato con felice sintesi dal motto dantesco (Paradiso, XI, verso 106) della Provincia di Arezzo: “Intra Tevero e Arno”. Ed era l’acqua la risorsa di più immediata utilità, garantita dal Castro che attraversava la piana e oggi passa sotto il centro della città per oltre un chilometro e mezzo nella direttrice via Pietro Aretino, piazza Guido Monaco, ex Caserma Cadorna, Casa dell’Energia e Urban Center, nuova caserma dei carabinieri.

Il rapporto di Arezzo con l’acqua è strettissimo, una storia che si snoda nei secoli in numerosi capitoli il primo dei quali è l’Arno, che rimane a debita distanza dalla città e le "torce il muso": caratteristica cui si deve tuttavia se nella peste del 1630-31 a Milano, la città fu sostanzialmente risparmiata.

Le masse in fuga dal contagio lo portarono attraverso la Consuma in Casentino, secondo un itinerario che parte da Borgo alla Collina, passando per Poppi e Bibbiena, spingendosi fino a Subbiano, con un elevatissimo numero di morti. Fino a Subbiano, ma non oltre perché sulla riva sinistra dell’Arno, da Giovi a Ponte al Romito, il morbo non è documentato: evidentemente il fiume funzionò da "rastrello", secondo una colorita espressione d’epoca, creando una barriera di indubbia efficacia. A inondare le parti basse della città non poteva esser dunque l’Arno, ma fu proprio il Castro, il 5 ottobre 1934: ne rimane un’ampia documentazione nelle cronache d’epoca.

Detto en passant: il rischio di inondazione della parte più depressa del centro cittadino esiste ancora, tanto è vero che l’ingener Remo Chiarini sostiene la necessità di un canale diversore che convogli l’ondata proveniente dal Castro e dal Bicchieraia nel Vingone, nella zona di Pallanca, nei pressi dell’attuale supermercato Superal.

Un altro fondamentale capitolo del legame tra la storia aretina e l’acqua è naturalmente legato all’impaludamento della Valdichiana, chiamato in causa da Dante per illustrare l’orrore della decima bolgia (Inferno XXIX, versi 46-51): il risanamento fu dovuto alle ingenti opere di bonifica attuate prima in epoca medicea e poi lorenese. Ebbene, al rapporto della città con l’acqua è principalmente dedicato il Bollettino numero 1062023, fresco di stampa per l’editore Letizia.

Il Bollettino sarà presentato oggi alle 11,30 alla Pieve di San Polo in apertura della conferenza della professoressa Simona Cipriani sul lago degli Idoli e il culto salutare delle acque, con ingresso libero. Piero Benigni racconta per la prima volta, con dovizia di particolari inediti e con un ricco documentario fotografico, la storia dei mulini azionati dal berignolo del Castro. Berignolo è il termine aretino per indicare il fosso che porta l’acqua ai mulini: quello del Castro ne ha azionati per settecento anni ben cinque dentro la città e due fuori, fornendo inoltre l’acqua alle concerie di Sant’Agostino, all’ospedale di Santa Maria sopra i Ponti e al Lanificio Militare.

Il Comune nel 1923 decise di prosciugarlo e nel 1975 gli fece subire l’onta della trasformazione in collettore fognante. Durante i lavori la talpa che scavava nella zona del Corso Italia lesionò alcuni palazzi; ci furono processi e saltarono imprese: il secolare berignolo, scherza Benigni, si prese la sua vendetta.

L’architetto Massimo Ricci dice una parola definitiva sul Ponte Buriano, non solo sulla questione della stabilità (risolta, ora che è andato finalmente in pensione), ma soprattutto sul fatto che Leonardo l’abbia raffigurato nella Gioconda. Le considerazioni di Ricci in merito sono convincenti e tali da rendere fantasiose, inattendibili e perfino goffe altre indicazioni.

"Il ponte - spiega Ricci - è un unicum fra i ponti medievali perché presenta i bastioni portati fino all’altezza del piano di calpestio": in tutti gli altri sono poco più al di sopra del livello medio del fiume. Leonardo ha riprodotto questo particolare nella Gioconda non lasciando più margine alla discussione.