
La Shoah che insanguinò la terra d’Arezzo. La deportazione e gli orrori in quattro lager
Nocentini
Il 20 luglio del 2000 è stata approvata la Legge 211 che riconosce il 27 gennaio 1945, giorno in cui le truppe sovietiche varcarono i cancelli di Auschwitz, come Giorno della Memoria per ricordare le discriminazioni e le violenze a cui furono sottoposti gli ebrei, e non, a partire dalla fine degli anni Trenta del Novecento. Annientamento, sterminio, persecuzioni sono sostantivi che vengono identificati con il termine Shoah che letteralmente significa catastrofe, distruzione. A partire dagli anni Ottanta del Novecento Shoah sostituirà la parola olocausto considerato non più appropriato per descrivere ciò che subì il popolo ebraico, infatti il termine coniato dal premio Nobel per la Letteratura scampato a Auschwitz Elie Wiesel, presupponeva un sacrificio volontario. La parola olocausto fu utilizzata per molti anni, famosa la frase di Primo Levi: “Io uso questo termine olocausto malvolentieri perché non mi piace. Ma lo uso per intenderci”.
Nel 1933, con l’avvento di Hitler al potere in Germania, ebbe inizio la costruzione dei primi campi di concentramento che nel 1941 si trasformarono in campi di sterminio. Gli ebrei furono indicati come collaborazionisti dei sovietici, oppositori del regime nazionalista, agitatori. La svolta più drammatica si ebbe nel 1935, anno in cui Hitler promulgò le “leggi di Norimberga”. Da quel momento gli ebrei tedeschi non potevano avere alcun tipo di rapporto con i “non-ebrei”, non avevano più diritti, non potevano più frequentare pubblici locali e scuole e vennero “marchiati” con una stella gialla cucita nei loro abiti che permetteva la loro immediata identificazione.
Le deportazioni, tra il 1943 e il 1945, raggiunsero cifre raccapriccianti. Gli ebrei venivano trasportati per mezzo di vagoni merci; i viaggi erano massacranti e molti morivano prima di giungere a destinazione. Coloro che varcavano i cancelli dei campi, fossero essi uomini, donne o bambini, ignari di ciò che li avrebbe aspettati, andavano incontro a umiliazioni, violenze, mutilazioni, freddo e fame arrivando alle camere a gas stremati e privati di qualsiasi dignità. Anche in Italia sorsero campi di transito e di concentramento, ricordo quelli di Fossoli e di Afragola per citarne alcuni, finalizzati a raccogliere coloro che poi sarebbero stati deportati, principalmente, nel campo di stermino di Auschwitz.
Ebrei furono deportati anche dalla provincia di Arezzo e molti di loro condotti al campo di concentramento di Bergen Belsen dove furono utilizzati, ormai alla fine del conflitto mondiale, come oggetto di scambio con i soldati tedeschi prigionieri delle truppe alleate. In provincia di Arezzo furono istituiti il campo di Renicci, di Villa Oliveto, Villa Ascensione e di Laterina. Il campo di Renicci fu costituito nell’ottobre 1942 per ospitare internati slavi, per lo più deportati dalla Slovenia e dalla Croazia ma successivamente ospitò anche anarchici. Restò in funzione fino al settembre 1943, quando la notizia dell’armistizio fece fuggire gli uomini di guardia e successivamente i prigionieri.
Il campo registrò al suo interno condizioni di vita molto dure, e un alto tasso di mortalità tra gli internati. Il campo di Villa Oliveto sorse in un edificio già esistente, nel giugno del 1940 ed arrivò ad ospitare un massimo di settanta persone. Ospitò famiglie ebree inglesi provenienti dalla Libia. A Poppi, in Casentino, il campo fu istituito a Villa Ascensione ed arrivò ad ospitare fino a poco meno di un centinaio di persone di diverse nazionalità. Villa Ascensione, a differenza di altri campi, si distinse, come riportato dalle testimonianze, per le buone condizioni di vita dei prigionieri.
Il Campo di Laterina fu campo di concentramento, di prigionia e infine centro di raccolta profughi. La sua storia non è legata solo agli anni del regime infatti, alla fine della Prima guerra mondiale, ospitò un gruppo di quattordici famiglie provenienti dal Trentino. Negli anni della Seconda guerra mondiale, ed in quelli successivi, divenne prima un campo di concentramento per prigionieri di guerra, poi campo profughi. Il viaggio verso i campi, qualunque essi fossero e in qualunque luogo si trovassero, fu lungo e disumanizzante.
Di coloro che varcarono il cancello con la scritta Arbeit macht frei pochi riuscirono ad uscirne vivi. Salvatore Quasimodo scrisse “da quell’inferno aperto da una scritta bianca: “Il lavoro vi renderà liberi” uscì continuo fumo”. In quel fumo era stata trasformata l’esistenza di una moltitudine di donne, uomini, bambini”. La paura di ciò che non conosciamo, del diverso da noi, ci porta all’odio. Per combattere quest’ultimo sono fondamentali memoria e storia. La prima è vissuto, è il passato che ci accompagna verso il presente. La seconda ci permette di comprendere, in modo critico, ciò che stiamo vivendo.