La Deposizione del riscatto. L’opera che toglie il respiro dipinta da Rosso Fiorentino dopo essere finito in malora

Senza più nulla dopo il sacco di Roma il pittore fu accolto a Sansepolcro dal vescovo Tornabuoni che gli affidò l’opera che è tornata dopo un lungo restauro.

La Deposizione del riscatto. L’opera che toglie il respiro dipinta da Rosso Fiorentino dopo essere finito in malora

La Deposizione del riscatto. L’opera che toglie il respiro dipinta da Rosso Fiorentino dopo essere finito in malora

Attilio

Brilli

Fino dagli esordi della carriera, Rosso Fiorentino, pittore della stagione manieristica, viene presentato come persona dal carattere autonomo e del tutto indipendente, tanto che, come dice Vasari, "con pochi maestri volle stare all’arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alla maniera di quelli". Egli è il prototipo dell’uomo rinascimentale, colto e armonioso nelle parole e nei gesti, nonché dotato di bellissima presenza e di ottime maniere. Si sa che si dilettava di musica e che era appassionato di filosofia.

Non sorprende che, partito da Sansepolcro per Venezia dove sarebbe stato ospite di Pietro Aretino, fra i suoi effetti personali sia stata trovata una copia del Cortegiano del Castiglione. A Sansepolcro Rosso Fiorentino era giunto dopo aver perduto ogni suo avere nel sacco di Roma del 1527. La scelta della Valtiberina è dovuta alla presenza del vescovo Leonardo Tornabuoni, suo protettore, per il quale aveva dipinto uno straordinario Cristo morto oggi a Boston. A Sansepolcro gli viene affidata l’esecuzione di una tavola con la Deposizione dalla Croce per la chiesa di Santa Croce della Compagnia dei Battuti. Nel 1554 la Compagnia cede i propri beni alle monache benedettine che erigono la nuova chiesa di San Lorenzo.

È qui, in un altare ottocentesco, che oggi ammiriamo in tutto il suo splendore la tavola del Rosso tornata a Sansepolcro dopo un lungo e laborioso restauro. Vale rammentare che il contratto per il dipinto era stato generosamente trasferito a Rosso Fiorentino dal pittore locale Raffaellino del Colle affinché, come dice Vasari, "in quella città rimanesse qualche reliquia di suo".

Raffaellino s’immaginava che Rosso, malgrado l’amicizia con il vescovo Tornabuoni, non si sarebbe trattenuto a lungo in una città marginale come Sansepolcro. Lavorando per la Compagnia dei Battuti, Rosso ha fatto di questa tavola un exemplum doloris più aspro e intenso della tavola con lo stesso titolo dipinta nel 1521 a Volterra, dove si trova tutt’oggi. In senso stretto, la tavola di Sansepolcro illustra uno stadio ulteriore rispetto alla deposizione propriamente detta, cioè il compianto e lo strazio di Maria sul corpo di Cristo.

All’azzurro terso e luminoso della Deposizione di Volterra subentra qui "un certo che di tenebroso per l’eclisse che fu nella morte di Cristo", come dice il Lanzi, "un colore di luce serotina e quasi notturna che dà il tono a tutto il dipinto". Al netto isolamento delle figure volterrane, nella tavola di Sansepolcro corrisponde un affollamento che sembra quasi togliere il respiro. Ma una volta diradata l’atmosfera fuligginosa, si schiude agli occhi dello spettatore una narrazione densa di simboli e allusioni. Il centro geometrico e simbolico del dipinto è costituito dalla figura di Maria in deliquio la quale, posta sull’asse della croce, nelle lunghe braccia aperte e quasi disarticolate e nelle palme socchiuse, sembra ripetere la posizione del crocefisso enfatizzando la lancinante identificazione con il figlio.

La sostengono tre mani le quali disegnano sul suo seno un triangolo, esplicito simbolo trinitario. Il dolore fisico vibra ancora nella cassa toracica del Cristo enfiata dallo spasimo e nella reattività nervosa della gamba sostenuta da Nicodemo.

Trasgredendo la consuetudine, il pittore ha raffigurato il corpo del Cristo nella totale nudità, scandalizzando preti e monache che sembra ne reclamassero una qualche vestizione. Quello che interessa al pittore è raffigurare nella tavola la fisicità della morte del Cristo, del Dio fatto uomo, senza remore o infingimenti.

La corporeità in tutti i suoi significati e linguaggi, di età. di sesso, di percezione e di comunicazione permea la scena e ne diventa il motivo dominante. Maria viene sostenuta da un vecchio barbuto e con il turbante, Giuseppe d’Arimatea, e da una giovane donna velata, rispettivamente ritratti dell’Oriente esotico e dell’Occidente cristiano.

A sua volta il corpo del Cristo è sorretto, da una parte, da un giovane dai ricci dorati e dal torso possente messo in risalto dalla guaina della veste, e dall’altra dal vecchio e calvo Nicodemo. Più in basso, una Maddalena dall’abito splendido e dall’elaborata capigliatura si prostra fino a terra con il gesto calcolato e quasi cerimonioso di chi ha la consapevolezza di essere guardato.

La sua eleganza si riflette in quella sgargiante dell’altra figura femminile, sulla sinistra del dipinto, che sembra apprestarsi a detergere il corpo del Cristo. Nel complesso, malgrado le accensioni luminose delle vesti e dei capelli di alcune figure, la tenebra avvolgente della notte evoca inquietanti presenze. Ne è l’emblema la figura scimmiesca con lancia e scudo che si trova fra il legno della croce e la scala. A differenza di tutti gli altri personaggi, essa fissa lo sguardo vitreo sullo spettatore, quasi volesse stabilire con lui una segreta connivenza, se non una chiamata di correità.

Nel buio della cosmica eclisse che grava in questa affollata epitome di mondo, fra la croce e il santo sepolcro sembrano risvegliarsi le forze del male e della morte con una energia inventiva che anticipa i capricci di Goya e l’incubo di Füssli.