Salvatore Mannino
È un incubo che almeno una volta hanno avuto in tanti: quello di essere sepolti vivi, di finire in un tomba o dentro una bara quando non è ancora giunta la fine. E’ appunto la storia che raccontiamo per Capodanno, che potremmo chiamare anche il caso (miracoloso o no dipende dalla fede) del soldato della Grande Guerra "risorto" dalla Spagnola, la terribile pandemia che falcidiò le file degli eserciti e anche dei civili in mezzo mondo nell’ultimo anno del conflitto, il 1918, e anche nel primo del dopoguerra, il 1919 appunto, provocando dai venti a cento milioni di morti su mezzo miliardo di contagiati. Una sorta di Covid del tempo, ma molto peggiore, sia perché era ancora più virulento e letale del virus che ci sta tormentando la vita adesso, sia perché le armi a disposizione della medicina per combatterlo erano infinitamente minori di oggi. Conviene leggerla, allora, la terribile avventura del soldato-ragazzino dell’epoca come un messaggio di speranza nelle ore buie in cui ci ha precipitato ancora lo tsunami della variante Omicron, ultimo colpo di coda della pandemia attuale: c’è luce, può esserci luce, anche oltre il buio della siepe di centinaia di migliaia di contagiati solo in Italia.
Senza quella luce, del resto, Arezzo non avrebbe mai avuto uno dei suoi medici migliori, il professor Pier Paolo Paoletti, cortonese, oggi quasi novantenne ma a lungo primario di urologia dell’ospedale, che la storia della "Resurrezione" del padre Luigi, allora appena diciottenne, l’ha appresa dal nonno Ottavio e poi l’ha raccontata in uno di quei libretti a tiratura limitata destinati ai familiari e amici stretti. Una vicenda che è poi diventata pubblica quando è entrata fra i pannelli della mostra su "Arezzo e la Grande Guerra", allestita in novembre al Circolo Artistico, curata da Pier Mario Bevivino. Nel racconto di Paoletti ci sono alcune intermittenze della memoria, date incongruenti rispetto alla realtà storica, ma sono particolari di fronte alla forza espressiva di una vicenda tanto patetica quanto sicuramente vera nelle sue linee essenziali.
Comincia tutto, dunque, nell’ottobre 1917, con la visita di cordoglio del maresciallo dei carabinieri di Cortona, che casa Paoletti l’aveva già frequentata in passato per aggiornare la famiglia sulle vicissitudini dell’altro figlio Giuseppe, fatto prigioniero dagli austriaci e poi scappato dal campo di internamento. Stavolta però, la notizia è tragica: vostro figlio Luigi, annuncia ai genitori Ottavio e Maria Nani, titolari di una bottega, è morto di Spagnola sul fronte del Trentino dove era appena arrivato. Probabile, però, che l’ottobre in questione sia quello dell’anno successivo, il 1918. Intanto perché la pandemia scoppia nel gennaio 1918 e poi i giovani di leva erano richiamati al compimento del diciottesimo anno e Luigi era nato il 4 gennaio 1900.
Comunque sia, al di là delle piccole discrasie dei ricordi di famiglia, mamma Maria non si fa scappare una lacrima. Al maresciallo chiede solo una cosa: parto subito, fate sapere che non chiudano la bara finché non arrivo, voglio riabbracciare mio figlio l’ultima volta. Il viaggio, su un calesse, è avventuroso, un’odissea. Di notte i primi chilometri, da Cortona verso Città di Castello e poi il Nord-est del fronte, scortata fino al Tevere dai carabinieri perché la Montagna Cortonese è infestata dai banditi, rinunciando al treno perché il movimento ferroviario, che dava la precedenza ai soldati diretti in prima linea, avrebbe portato via troppo tempo. Mamma Maria non si ferma mai, né di giorno né col buio, di mangiare, nel suo stato d’animo, non se ne parla nemmeno, solo qualche galletta e qualche zolletta di zucchero divisa coi cavalli. Sonnecchia soltanto quando la strada è dritta e il calesse va da solo.
Finalmente, dopo un’overdose di fatica, la signora arriva all’ospedale da campo in cui le hanno detto che c’è la salma del figlio Luigi. I soldati non vorrebbero farla passare nell’area militare, ma lei, un’autentica "marescialla" abituata a mandare avanti la bottega, battaglia finché la fanno entrare. La accoglie una crocerossina che l’accompagna fino alla chiesetta-camera ardente. La bara del figlio è ancora aperta, come aveva chiesto, lei si china su di lui per dargli l’ultimo bacio e.... Già, racconta il professor Paoletti, che a sua volta riferisce quanto gli ha narrato il nonno, il quale deve averlo appreso dalla moglie, un urlo si leva altissimo dalla chiesa: la signora Maria, abbracciando il suo "Gigino", ha sentito che nella bara il cuore batte ancora.
Arriva prima un dottorino con le stellette, seguito da un collega più alto in grado e infine da un colonnello medico. Facile immaginare il bailamme con le spiegazioni dei sanitari: un caso di morte apparente, come qualche volta succede con la Spagnola, Luigi si è salvato grazie alla madre dall’orrido destino del sepolto vivo. Lei, da buona cattolica, ha un’altra spiegazione, miracolosa, della quale rende grazie alla Madonna e a Santa Margherita, la santa più amata dai cortonesi. Ma questa è questione di fede.
Il diciottenne viene trasferito in un ospedale militare più attrezzato, dove prosegue la convalescenza, con la madre che segue lui al pari degli altri ricoverati. Il maresciallo dei carabinieri torna dopo qualche settimana a casa Paoletti per annunciare che la guerra sta per finire (il 4 novembre) e che madre e figlio torneranno presto a casa. Stavolta in treno. Ad accoglierli c’è tutta Cortona, compreso il sindaco, che accompagna il redivivo fino all’abitazione di via Dardano, in pieno centro, la strada che parte da piazza Signorelli per inoltrarsi nella città antica. Luigi verrà poi congedato nel 1920 e potrà farsi una famiglia. Morirà ancor giovane, nel 1954, lasciando due figli, Pier Paolo e Lia. La sua storia diventa leggenda, quel racconto un po’ mitico che è arrivato fino a noi, oltre un secolo dopo. A dirci che non basta una pandemia a rompere l’energia mai esausta della vita.