
Salvatore
Mannino
C’è un passato che non passa, non vuole passare. Come quello del titolo italiano che fu apposto negli anni ’80 del ’900 a una celebre polemica della storiografia tedesca sul nazismo. Qui da noi, invece, il passato che ancora brucia è, manco a dirlo, il fascismo, ossia il ventennio di deviazione dalla tradizione liberaldemocratica dell’Italia unita, trasformata in regime totalitario. Ultimo esempio, almeno aretino, la battaglia dell’Anpi contro il restauro della scritta firmata Mussolini che campeggia ancora sul muro di un palazzo di Lucignano, che per ironia della sorte ospita anche la sede locale del Pd. Che fare di quell’antesignana dell’odierna pubblicità murale, destinata a durare nel tempo perchè era impressa nella pietra e non basta il manifesto successivo, incollato dagli attacchini, a cancellarla? Che fare di quello slogan ducesco, “Quando si è forti si è cari agli amici e temuti dai nemici“, datato 1939? Uno storico di vaglia come Camillo Brezzi, che da direttore scientifico dell’Archivio dei Diari di Pieve di memoria se ne intende, spiega che "La storia non si cancella, semmai si contestualizza". Come a dire che servirebbe un cartello per spiegare più che un censore col barattolo di calce per coprire.
Saggio proposito, ma le guerre delle memoria, si sa, hanno delle ragioni che la ragione non conosce e divampano quasi sempre sugli aspetti più controversi del nostro passato. Si veda la contesa che una ventina d’anni fa si aprì sul Viva Maria, moto reazionario del lontano 1799 più che mai discusso. La giunta di centrodestra di allora gli dedicò una piazza, arrivarono proteste da mezza Italia, il tutto si risolse, ad opera dello stesso Brezzi diventato assessore del centrosinistra, con un diplomatico cambio di nome: da piazza del Viva Maria a piazza della Madonna del Conforto, sempre della Madre di Cristo si trattava, sia pure con diversa declinazione.
Ma certo non si tratta dell’unico esempio di "memoria divisa" (espressione coniata dallo storico Giovanni Contini per gli echi della strage di Civitella del 1944, con gli abitanti del borgo che a lungo hanno accusato i partigiani di aver innescato il massacro tedesco). Si veda, per dire, il diverso modo in cui nella toponomastica stradale sono trattati tre padri della patria: a Cavour una delle vie principali del centro, a Mazzini, lontano dall’ortodossia risorgimentale post-unitaria, una via secondaria, a Vittorio Emanuele II, prima tutto, cioè il Corso, regina delle arterie cittadine, poi niente, punizione per il "tradimento monarchico" che avallò il fascismo. E, paradosso dei paradossi, i Savoia, dopo l’8 settembre, finirono anche nel mirino dei fascisti ormai repubblicani, che presero a pistolettate il busto di Umberto I (cui era intitolata anche piazza San Francesco) che stava al centro di piazza della Badia. Il monumento sforacchiato è ancora ospitato e negletto nell’archivio storico del Comune di via della Fiorandola.
Episodio questo che ci riporta appunto al tema principale dell’eredità del fascismo, di cui la scritta di Lucignano è minuscola parte. Tanti i pezzi di città che sono stati inghiottiti da una memoria inesorabilmente divisa e iconoclasta, specie nei primi anni, dal 16 luglio 1944 della Liberazione in avanti. Quasi subito la prima amministrazione antifascista del sindaco Curina fece smantellare un monumento che veniva vissuto come un’onta: l’Arca Roselli che ospitava le spoglie di Aldo Roselli, unico aretino dei tre squadristi uccisi nell’agguato di Renzino del 17 aprile 1921, peraltro ferocemente vendicati da otto vittime della reazione fascista. Piccone risanatore e via l’Arca, così come nello stesso periodo furono coperti a calce i pregevoli affreschi che Gisberto Ceracchini, notevole pittore del ’900 italiano, aveva realizzato nel sancta sanctorum, dedicato appunto al mito di Renzino letto in chiave squadrista, della Casa del Fascio, attuale Archvio di Stato. E niente più della memoria di Renzino ha diviso i fascisti dagli antifascisti, che provvidero anche a far sparire la via Aldo Roselli, adesso via Oberdan.
Inevitabilmente rimosso, ad opera del primo sindaco post-bellico di Foiano, Galliano Gervasi, il monumento a Renzino nel cortile della Cascina Sarri, dove avvenne l’agguato. Il casolare, che era un luogo centrale delle celebrazioni fasciste, è ormai semiabbandonato da decenni, anche se potrebbe diventare una sorta di museo per spiegare a tutti, specie i giovani,uno dei principali atti di violenza in Italia nel periodo delle origini del fascismo.
Rinchiuso nel deposito del solito archivio di via della Fiorandola pure il monumento di Italo Griselli al Legionario fascista che schiaccia l’idra bolscevica e che campeggiava in piazza della Prefettura. Anche lì scattò inesorabilmente la tagliola della memoria, del resto era impensabile esporre in pubblico un simbolo tanto in contrasto col tempo della democrazia. Pure il luogo cambiò nome, da piazza Corsica (targa fascistissima) a Poggio del Sole, così come l’impresentabile piazzale del Duce divenne piazza della Repubblica e i viali del Prato passarono da viali del Littorio e del Re a viali Matteotti e Buozzi, martiri dell’antifascismo. Più semplice l’opera di epurazione del passato alla caserma Cadorna, ora parcheggio omonimo. All’ingresso che ogni giorno varcano centinaia di automobilisti si vedono ancora due fasci ma decapitati dell’ascia, in modo da renderli irriconoscibili.
Si sono salvati invece dell’epoca fascista la prefettura di Michelucci, il "Casone" di via Crispi, la ex Gil di via Baldaccio (ora sede dell’Itis), il silos di Pescaiola e quanto resta del Foro Boario, tutti simboli decisamente meno esposti. Le guerre civili della memoria sono le più divisive, perchè spaccano all’interno una comunità e i suoi valori. E’ il passato che continua a non passare.