STEFANO
Cronaca

Griffolino, l’alchimista aretino che voleva fare ali al folle volo e che invece finì sul rogo

Un altro personaggio locale nella Divina Commedia, fatto bruciare dal Vescovo di Siena. Quasi un eroe della libertà della scienza

Stefano

Pasquini

"Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”, rispuose l’un, “mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo. Ma ne l’ultima bolgia de le diece me per l’alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece”.

Leggiamo questi versi nel canto XXIX dell’Inferno. Dante e Virgilio si aggirano nella decima bolgia, dove sono puniti i falsari attraverso gravi malattie come lebbra, furia rabbiosa, tisi. In questa atmosfera cupa appaiono due persone sedute, dando la schiena l’una all’altra, intente a grattarsi il corpo a causa della lebbra. Sono due alchimisti, Griffolino d’Arezzo e Capocchio, entrambi morti sul rogo rispettivamente nel 1272 e nel 1293.

La storia narrata nei versi è curiosa e singolare e si svolge a Siena, anche se il protagonista è di origine aretina. Griffolino, uno studioso che praticava alchimia, frequentava un nobile, Albero (o Alberto) da Siena, e aveva commesso l’imprudenza di dirgli, per scherzo, che era capace di volare ("Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”"). Albero quindi voleva che Griffolino insegnasse anche a lui a librarsi in aria. Non risultando alfine possibile (" solo perch’io nol feci Dedalo "), per vendetta della cocente delusione, lo fece condannare al rogo per eresia, dal vescovo di Siena, del quale lo stesso Albero era il figlio segreto o comunque un protetto ("mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo"). La vicenda può apparire quasi ridicola se non fosse per il finale estremamente tragico.

Griffolino era una persona acuta e di cultura. Lo troviamo iscritto nel 1258 alla società de’ Toschi a Bologna, corporazione costituita in massima parte dai fiorentini, dotata di proprio statuto, magistratura ed armi. L’Aretino praticava l’alchimia e cioè quell’arte con la quale si pensava di trasformare metalli vili in oro, grazie ad un composto chiamato “pietra filosofale”. Avevano dato credito a questa pratica anche filosofi dell’importanza di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Invece Dante seguiva l’opinione che giudicava negativamente l’alchimia, come attività fraudolenta, opinione recepita in seguito dalla Chiesa, con una Bolla del 1317 di Giovanni XXII.

Con la storia di Griffolino però l’interesse di Dante non è tanto quello di condannare l’arte alchemica. Infatti Griffolino era stato condannato al rogo dal vescovo di Siena con l’accusa (infondata) di eresia, mentre è all’inferno per aver praticato l’alchimia. Infatti la giustizia divina non può sbagliare ("dannò Minòs, a cui fallar non lece"), come quella secolare. Emerge allora uno stridente contrasto fra giustizia divina e umana.

La giustizia umana scatta per una sciocca ripicca collegata ad un abuso di potere. Griffolino forse si dimostra poco serio nell’illudere uno sciocco sulla possibilità di volare, ma la pena subita appare abnorme. Albero da Siena lo fa addirittura mettere al rogo per eresia. Un’eresia inesistente dunque mette in luce un terribile abuso di autorità. In questo modo l’Alighieri ci illustra la qualità del potere alla fine del Duecento. Bastava un piccolo errore, una burla, una leggerezza, per fare una brutta fine, se l’offeso era una persona importante e per di più intimo di un potente della Chiesa. Proprio il vescovo appare come la figura più cupa della storia. Anzitutto il prelato, pur essendo uomo di chiesa, si presta senza problemi, ad un’assurda e crudele vendetta personale. Inoltre chi era questo Albero? Suo figlio? In questo caso il vescovo sarebbe venuto meno all’obbligo di astenersi da relazioni sessuali e dal generare figli, obbligo che risaliva al Concilio di Elvira del 306 d.C.. Dante però scrive: "mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo", espressione che significa che era come un figlio, non che fosse proprio suo figlio. Allora viene da pensare che forse questo Albero potesse essere l’amante del vescovo. È un’ipotesi non suffragata da documenti, anche perché all’epoca non si potevano certo scrivere queste cose. Appare verosimile però proprio per l’andamento della storia. Perché mai un vescovo si sarebbe dato briga di condannare un intellettuale al rogo, se non avesse avuto una forte motivazione per farlo? E quale motivazione più forte di quella di voler compiacere un giovane amante? Siamo sicuri poi che con quel "l’avea per figliuolo", Dante non ci abbia proprio voluto far capire questo? Se Albero fosse stato l’amante del vescovo emergerebbe un quadro ancora più fosco: lussuria, sodomia, abusi di potere, persecuzioni. Pur con gli scarni elementi che ci offrono i libri di storia sulla sua vita, Griffolino appare come una figura nobile, un uomo che ha precorso le moderne scienze ed è morto per un abuso di potere collegato alla persecuzione religiosa. Ci sono tutti i presupposti per farne un eroe della città di Arezzo.