
Garibaldi, una notte sul Corso a casa Mori. L’ospitalità al generale e l’attentato fallito
Rupi
Quando il 12 marzo 1860 il plebiscito votò a larga maggioranza l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna, lo staff reale dovette scegliere per ogni città i successori alla vecchia carica granducale di Gonfaloniere, nella nuova nomenclatura appellati “Sindaci”. Per Arezzo fu scelto Pietro Mori, che si rivelò presto un personaggio “tosto”. E lo dimostrerà quando Garibaldi, in fuga con le sue truppe da Roma, dopo tre settimane di marce forzate arriva in Toscana, dove riceve buona accoglienza a Castiglion Fiorentino, ma trova le porte chiuse ad Arezzo e si accamperà con le truppe sul piazzale dei frati di Santa Maria. Mori aveva già deciso di ospitarlo in casa propria ma il Presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi, informato, gli manda a dire che non era il caso. Mori gli invierà questa risposta secca: “eccellenza, nel Comune comanda Lei e io sono obbligato a obbedire, ma in casa mia comando io”. E come ci racconta la lapide nel palazzo in fondo al Borgo Maestro (oggi Corso Italia) dove adesso è la Banca, Garibaldi nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1867 dormirà nel palazzo del Mori. Garibaldi si illude di riuscire a sollevare e aggregare la popolazione aretina e si affaccia alla finestra sul Corso a rinnovare con il popolo il patto di liberazione di Roma. Ma l’orazione non deve aver avuto particolare successo, non c’è notizia di adesioni.
In quel momento Garibaldi si trova in grave difficoltà, con la moglie Anita morente, un esercito assottigliato dalle diserzioni, inseguito dai generali austriaci D’Aspre e Radeztky, che via, via fucilano sul posto qualche garibaldino sbandato. Garibaldi si salverà grazie alla protezione delle popolazioni contadine. Intanto Mori rischierà di pagare cara l’ospitalità a Garibaldi: un attentato di matrice politica, fallisce solo grazie alla sua pronta reazione.
La vicenda sarà portata in parlamento dal deputato aretino Giovanni Severi, che denuncerà intrighi anti-garibaldini di matrice filomonarchica. Giovanni Severi a 16 anni si aggrega volontario alle truppe di Garibaldi e partecipa alla campagna di Lombardia del 1859, agli scontri di Capua e del Volturno della spedizione dei Mille, prende parte al tentativo di prendere Roma del 1862, viene arrestato dalle truppe reali sull’Aspromonte perché dichiaratosi mazziniano; rilasciato, torna nelle file garibaldine per la battaglia di Bezzecca. Adesso si dedica a completare gli studi e si laurea in giurisprudenza, si distinguerà per la difesa delle classi più povere. E’ da questa attività che deriva la sua elezione al parlamento in una lista di sinistra. Dopo essere stato eletto in due legislature, per iniziativa di Giovanni Giolitti è nominato parlamentare a vita. La sua presenza in Parlamento non passa inosservata. Complessivamente rimarrà in Parlamento sette legislature, fa estendere il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero superato la terza elementare. Tuttavia il suo avvicinamento a Giolitti, politico di centro, che aveva sponsorizzato la sua nomina a senatore a vita, gli fa perdere il rapporto con la sinistra. Severi si qualificherà anche per varie iniziative di interesse aretino, tra cui la fondazione della Croce Rossa e la battaglia, andata a buon fine, contro la soppressione della provincia di Arezzo, propugnata da Francesco Crispi, storico avversario di Giolitti. Nei vari rami della famiglia aretina dei Severi spiccano altri personaggi. Su tutti Francesco Severi, illustre matematico, Accademico d’Italia, spirito patriottico, partirà volontario nella prima guerra mondiale.
Divenuto famoso, Severi verrà chiamato dall’imperatore del Giappone a istruire le sue figliole a far di conto. Ivan Bruschi ebbe l’occasione di essere presentato all’imperatore del Giappone. Racconta Bruschi che, una volta apparsa nella stampa la notizia del suo viaggio di affari in Giappone, la Rosina, cameriera di una sua conoscente e, precedentemente, cameriera di Francesco Severi, lo aveva fermato chiedendogli di portare i suoi saluti all’imperatore. Bruschi arrivò a Tokyo, ebbe occasione di parlare del matematico Severi con il nostro ambasciatore, aggiungendo la buffa storia della Rosina, fu incredibilmente convocato dall’imperatore del Giappone; l’ex dio in terra gli fece sapere che ricambiava i saluti della Rosina. In realtà, quando Severi con la sua cameriera si era trasferito da Hirohito, questo, preso dalla voglia di gustare la cucina italiana si era fatto preparare un piatto di spaghetti: entusiasta fece proporre alla Rosina di restare a servizio nella sua cucina. “Toh, e a chi lo lascio i’ mi’ Severi!” fu la storica risposta della Rosina. Nei rami della famiglia Severi altri personaggi hanno lasciato qualche segno. Discende da un ramo laterale un Severi per il suo aspetto denominato “il pretebello”. Vescovo ausiliare di Arezzo, curioso conoscitore della storia della città e che sicuramente ha avuto un’influenza determinante sul percorso culturale dello storico don Angelo Tafi. Ernesto Severi, fratello del “pretebello”, fu vice podestà di Arezzo, durante il periodo dell’Occhini. Ci ha lasciato due libri di poesie in dialetto aretino dal titolo “quattro versi in pinzimonio”. Concludiamo con la poesia “il vizio”, riferita al fumo: “Fior di Sambuco, – el vizio fa preciso come l’ béco – che nentra drento e doppo archiude el buco.