Fort Knox, il Pm chiede una nuova stangata sul traffico di oro nero

Dioni: 4 richieste di condanna a 6 anni, il triplo dei patteggiamenti per l’ultimo filone. In ballo un sequestro di cinque milioni che l’accusa chiede di rendere definitivo

Svolta per Fort Knox

Svolta per Fort Knox

Arezzo, 12 febbraio 2020 - Nel giorno dell’ultimo redde rationem, il Pm Marco Dioni presenta un conto da brividi agli imputati residui di Fort Knox, i pochi (una manciata) che hanno scelto di andare a processo e non di patteggiare, come le decine e decine di orafi che penalmente (il patrimonio è un altro discorso) se la sono cavata senza troppi danni. Ecco dunque che Dioni chiede quattro condanna a sei anni per quelli del gruppo Borrelli più una a 3 anni e 9 mesi.

Tutti loro sono accusati di riciclaggio per il più colossale traffico di oro in nero fra l’Italia e la Svizzera mai scoperto. Due orafi di Valenza Po devono invece rispondere di ricettazione e a loro va un po’ meglio: le richieste del Pm si fermano infatti a tre anni. E’ una stangata ( solo teorica e ipotetica fino alla sentenza). Per capirlo basta un confronto con le pene dei riti abbreviati, in particolare dei patteggiamenti, dove gli imputati (principalmente aretini) se l’erana cavate con due anni e i benefici di legge. Il triplo significa, in caso di condanna, andare in galera davvero.

Ma per questo è ancora presto: servirà intanto di arrivare al verdetto di primo grado, che ieri il tribunale presieduto da Giulia Soldini ha fissato al 10 marzo e serviranno anche appello e cassazione. In ballo ci sono anche cinque milioni di sequestri in atto dal 2012, quando scattò il primo, clamoroso blitz dell’inchiesta, quello che inguaiò anche il cosiddetto gruppo Borrelli e i valenzani.

Possono diventare un’altra confisca, possono aggiungersi al meccanismo infernale che il Gup Marco Cecchi ha escogitato per coloro che hanno patteggiato, una sorta di «ergastolo economico», con 200 milioni da pagare. Il troncone che si avvia alla conclusione è quanto resta del maxi-processo mai celebrato perchè la stragrande maggioranza degli accusati scelse di chiudere i conti nell’aula del Gup.

Tentazione cui si sottrassero solo i napoletani Borrelli e i valenzani. Due filoni indipendenti l’uno dall’altro, anche se legati dai fratelli Pesce, anche loro fra i patteggianti. Fu infatti Federico Pesce a farsi intercettare in Autosole, nell’estate 2011, di ritorno da Valenza, con qualcosa come un milione di euro in banconote. In preda dal panico, il protagonista offrì tutto alla Polstrada: prendetevi i soldi, ma lasciatemi andare.

L’inizio di un’inchiesta, affidata alla Finanza, in cui i primi a finire sotto sorveglianza furono proprio i Pesce, Federico e il fratello Raffaele. Si scopre così il canale valenzano, nel quale il corriere prende il Freccia Rossa da Napoli a Milano, poi sale sul taxi fino a Valenza, dove scambia il trolley dell’oro in nero con le banconote e torna indietro. Indagando sui Pesce, la Finanza mette le mani anche su un altro ramo del traffico, quello dei Borrelli appunto, che raccolgono il metallo dai compro oro del sud, lo affinano presso aziende mai individuate del tutto e lo inviano in Svizzera, dal capo dei capi del contrabbando, l’imprenditore di origine albanese Petrit Kamata, già vittima della confisca più grossa, quasi duecento milioni.

A provarlo ci sono anche le intercettazioni telefoniche, nelle quali dall’Italiana Preziosi dei Borrelli partono chiamate in cui si chiede di parlare con «lui», che per gli inquirenti è proprio Kamata. A seguire le arringhe difensive. Con gli avvocati, fra cui Piero Melani Graverini, che hanno chiesto l’assoluzione dei valenzani. Ora l’attesa è tutta per la sentenza del 10 marzo.