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Etruria, dal precipizio alla ripresa: "Arezzo casa mia" dice Roberto Bertola

Il racconto dell'ad nei 18 mesi dal fallimento al completamento del passaggio a Ubi. "La soddisfazione? Quelle richieste di acquisto solo per noi"

Roberto Bertola

Arezzo, 12 maggio 2017 - E’ arrivato con Banca Etruria nel cuore del ciclone, chiude la sua esperienza da amministratore delegato «ponte», come dice lui con un pizzico di ironia, mentre siamo nel pieno di un’altra tempesta mediatica originata da Bpel, il caso Boschi. Roberto Bertola, il manager che ha retto il timone di via Calamandrei per diciotto mesi, da mercoledì sera non è più al vertice di Etruria. Altro nome, Banca Tirrenica, altro management, quello che viene direttamente da Bergamo di Osvaldo Ranica presidente e Silvano Mannella amministratore delegato. Il gentiluomo di Saluzzo (titolo che si è meritato per il garbo dimostrato) racconta in un’intervista a La Nazione, i retroscena del suo arrivo ad Arezzo.

«Me ne stavo tranquillamente nella cantina di casa mia - narra ironico come sa essere - e pensavo solo a come sistemare un asse per le damigiane su unmuro che non era proprio perpendicolare. Era il venerdì prima del decreto di risoluzione del 22 novembre. Mi hanno chiamato e mi hanno detto se ero pronto ad assumermi la missione delle Good Bank. Ho posto una sola condizione: che mi affidassero una banca del territorio. Come quelle in cui avevo lavorato fino ad allora. La Cassa di Risparmio diTorino e il Banco di Sicilia, poi finiti nel gruppo Unicredit. La domenica sera ero già in banca. Etruria era in piena bufera"

Qual è stato il momento più drammatico? «Ce ne sono stati tanti. A cominciare dalla risoluzione con la quale azionisti e risparmiatori si sono trovati titoli che valevano zero. C’era da riconquistarne la fiducia. E direi che ci siamo riusciti. Oggi 3 mila su 4 mila e rotti sono ancora nostri clienti».

E c’è stato anche il caso di Luigino D’Angelo, il pensionato suicida. «Altro momento terribile. Sembrava che fossimo tutti brutti, sporchi e cattivi. Ma mi consenta di dire che invece in banca c’è uno staff di assoluto valore».

Certo, le subordinate... «Ho passato tutta la vita a vendere e comprare subordinate. Da addetto ai lavori e da cliente. Ne ho ancora nel mio portafogli. Se non ho quelle diEtruria è per puro caso, perchè stavo altrove. Ma nessuno in Italia credeva che una banca potesse fallire».

Poi, subito dopo, è scoppiata la crisi di fiducia. I depositanti scappavano. Non ha mai temuto che la banca potesse saltare? «Non sono state settimane piacevoli. La situazione era quello che era. Non a caso, quando a gennaio sono arrivate le prime manifestazioni di interesse per la vendita, non ce ne era nemmeno una che riguardasse Banca Etruria da sola. Credevano che dopo qualche mese non ci saremmo stati più. E invece a giugno la banca era di nuovo in piedi. Ripensandoci però il momento peggiore è stato un altro...

Dica. «Quando all’inizio ho dovuto rompere il ghiaccio. Conquistarmi la fiducia di colleghi che dentro la banca erano disorientati. Loro non mi conoscevano e insieme dovevamo invece affrontare una situazione critica».

E la soddisfazione più bella? «In estate, quando sono arrivate le offerte di acquisto solo per noi. Da parte di banche importanti (Bertola non lo dice ma si riferisce a Bper). Voleva dire che avevamo rimesso in rotta la barca.

Cosa le lascia questa città? «E’ bellissima ma l’ho sempre vista di corsa. Come il resto del territorio della banca. In Sicilia dopo cinque anni ho lasciato più amici di quanti ne avessi in Piemonte, nella mia terra d’origine. Credo che qui succederà lo stesso. In questi mesi ho sempre vissuto in albergo, ma la sera dicevo: ora vado a casa. Ecco per me Arezzo è stata casa mia». E chissà se qualcuno penserà di farlo cittadino orario come a Palermo.

di Salvatore Mannino