
Fornasari e Bronchi
Arezzo, 11 gennaio 2020 - Il Pm d’appello, Domenico Manzione, già sottosegretario di Renzi nel frattempo rientrato nei ranghi della procura generale di Firenze, non fa sconti. O meglio non li fa ai due principali protagonisti del secondo processo per l’ostacolo alla vigilanza di Bankitalia, dopo l’assoluzione generale in primo grado. Richiesta di condanna, dunque, per l’ex presidente Giuseppe Fornasari, e l’ex direttore generale Luca Bronchi: due anni al primo e un anno e 8 mesi all’altro.
Se la cava solo il terzo imputato, l’ex direttore centrale David Canestri, responsabile del risk management, l’unico per il quale arriva la proposta di confermare il proscioglimento. Non ha concorso nel reato, dice chiaro e tondo Manzione. Attenzione però, perchè una richiesta di condanna non è una condanna. Anzi è persino normale che la pubblica accusa, salvo casi eccezionali, solleciti la colpevolezza degli imputati.
Il processo, dunque, è tutto da giocare e gli avvocati difensori lo faranno nella prossima udienza del 6 febbraio che, salvo sorprese e ritardi, dovrebbe essere anche quella della sentenza. Sarà quello il giorno nel quale parleranno i i legali dell’ex presidente, Antonio D’Avirro, e dell’ex Dg, Carlo Baccaredda Boy. Quelli di Canestri, Luca Fanfani e Stefano Lalomia, lo hanno già fatto ieri, ovviamente conformandosi alla richiesta di assoluzione.
Le difese sono rimaste sul filo fino all’ultimo, perchè temevano comunque una richiesta di condanna, anche se speravano in una requisitoria più tenue, alla luce dell’interrogatorio di Emanuele Gatti, l’ispettore di Bankitalia, principale sostegno dell’accusa, che erano convinte di aver messo in difficoltà. Manzione, invece, non si è smosso dalla linea del ricorso presentato a suo tempo dal procuratore capo Roberto Rossi, sia pure differenziando le posizioni.
A Fornasari, evidentemente, alla luce della pena sollecitata, ha attribuito le responsabilità più pesanti, a Bronchi, invece, ha addebitato qualcosa in meno, fino poi a scendere al nulla delle accuse contro Canestri. I capi di imputazione restano i due del rito abbreviato aretino, suggellato da una sentenza di assoluzione dell’allora Gup Anna Maria Lo Prete, che diede l’impressione del clamoroso. Innanzitutto ci sono i presunti ritardi e le presunte ritrosie con cui sarebbero stati annotati a bilancio i crediti deteriorati, che all’epoca dell’ispezione di Gatti, stavano diventando quella valanga da cui poi sarebbe stata travolta Etruria.
La seconda accusa è quella relativa alla cessione dell’immobiliare Palazzo della Fonte, nella quale Bpel aveva raccolto tutto il proprio patrimonio di edifici, ad eccezione della sede storica di via Crispi e del centro direzionale di via Calamandrei. La vendita sarebbe stata finanziata dalla stessa banca con una serie di prestiti a società parallele a quelle dei soci che acquistarono.
Per questo fu imposto a Etruria di non appostare a bilancio la plusvalenza. L’ostacolo a Bankitalia si sarebbe materializzata non nei finanziamenti ma nel fatto che non ne fosse stata data comunicazione a via Nazionale, la quale non avrebbe avuto un quadro completo della disastrosa situazione finanziaria per la mancata classificazione di sofferenze e incagli.
Un’ipotesi parzialmente contraddetta dalla consulenza d’ufficio disposta dalla procura, che divenne il principale argomento in favore dell’assoluzione. Per la condanna, inevitabilmente si è schierata anche Banca d’Italia, che è parte civile