Aperto il giardino dei figli perduti: i genitori piantano un albero per ogni lutto

A Romena un omaggio unico in Italia: famiglie unite dallo stesso dolore, si ritrovano da anni ogni mese. Il Vescovo benedice i mandorli e il percorso "della Resurrezione"

Il giardino di Romena

Il giardino di Romena

Arezzo, 3 aprile 2018 - La «Spoon River» dei ragazzi è fiorita come se fosse primavera piena. I mandorli li hanno scelti anche per questo: sono i primi a sbocciare, rompendo il ghiaccio dell’inverno, sono gli ultimi a fare frutto. E non ti tradiscono. Non ti tradiscono come ha fatto la vita con decine di famiglie, strappando loro il fiore più bello: un figlio. Chi sulle strade, chi in un letto di ospedale, chi dietro una curva maledetta.

Decine di babbi e mamme, dall’Italia e dall’estero. Che da anni provano a sfidare lo strazio mettendosi insieme. E’ l’avventura di Romena, una delle tante avventure in una comunità che si muove contro corrente da quando è nata. La morte di un figlio scivola nel silenzio? Loro no, si ritrovano, ne parlano, per quello che è possibile si aiutano.

Tra i primi a mettersi in gioco era stato Giovanni Galli, ex portiere della Fiorentina e della Nazionale: lo strazio della morte di Niccolò, il figlio, forse anche di scoprire quanto la popolarità poco ti aiuti a placare il dolore. Ma da lì è iniziato un fiume, un fiume di strazio e insieme di speranza. Non a caso il giardino inaugurato ieri prende il nome dalla Resurrezione.

Lo ha benedetto Mario Meini il vescovo di Fiesole: al suo fianco don Luigi Verdi, che poi è l’anima di Romena, il primo non a caso ad essere andato controcorrente. Proprio con un mandorlo, piantato vicino alla Pieve, aveva lanciato l’idea di Romena. E un mandorlo, quello di Van Gogh, campeggia in una delle sale. E siamo ancora lì, a due passi dalla Pieve, nel giorno della festa della Fraternità. Da ieri c’è un nuovo simbolo, unico in Italia.

E non potrebbe che essere l’unico, in un mondo che il pensiero della morte lo rimuove. Un ovale, un percorso che ha il sapore della via crucis. E che la porta fino all’estremo. Perché cammini in un itinerario che è insieme di dolore ma anche di riflessione. Otto tappe, segnate da alcune scritte sulla pietra. E che si completa al centro, vicino ad un olivo: l’albero della vita, punto di arrivo di un percorso che dalla morte parte ma alla morte cerca di non fermarsi.

Ogni famiglia ha piantato il suo albero e poi lo ha personalizzato perché richiamasse l’affetto perduto. «Non un crocifisso ma il vuoto, il risorto, l’infinito unica eredità: l’oro nelle ferite». Ferite aperte, cicatrici che non si chiudono, perché la morte di un figlio ti resta appiccicata addosso tutta la vita. Per questo non sfuggono, per questo hanno scelto di non voltarsi dall’altra parte.

Il gruppo si ritrova un mese dopo l’altro: qualcuno via via manca ma gli altri portano avanti la strada per tutti. E vanno al sodo. A Natale si interrogano sulla festa vissuta con il carico di quei vuoti. E così d’estate, durante le ferie.

Confronti serrati, dove non sempre ti trovi d’accordo: se non su una cosa, portare il proprio dolore agli altri. Per cercare di resistere. E insieme per onorare nel modo migliore chi non c’è più. Lutti elaborati in genere nel silenzio, dietro una porta chiusa: e che qui vengono portati alla luce del sole. Fino a dargli le radici e il profumo di un giardino di mandorli fioriti.